Animali ed esperimenti. Oltre la crisi della ricerca: limiti sensati e più reclutamento
Silvio Garattini
La ricerca italiana è in grave crisi perché non è competitiva con gli altri Paesi europei, e tanto meno lo è rispetto ai colossi Stati Uniti e Cina. Siamo impastoiati da una serie di leggi e leggine che non permettono tempestività, soprattutto in quella ricerca che ha come scopo finale il benessere degli ammalati. Basti pensare che, unico Paese al mondo, a partire dal prossimo luglio in Italia non sarà più possibile eseguire ricerche sui trapianti d’organi in specie animali diverse, mentre in tutto il mondo si sta studiando come recuperare dopo adeguati trattamenti organi da animali superiori, considerando che le donazioni umane non sono sufficienti. Non solo: sarà impossibile studiare in tutte le specie animali sostanze che inducono dipendenza, mentre siamo invasi da nuove droghe che arrivano a decine e di cui non sapremo nulla se non le possiamo studiare.
Anche se si potessero realizzare ricerche, sono tuttavia necessari altri, lunghi passaggi. Bisogna compilare un questionario, preparare un dettagliato protocollo, a cui si deve unire un documento che spieghi anche ai non addetti ai lavori perché si realizza quel particolare studio. Questa documentazione deve poi passare attraverso i pareri di un Comitato etico e del benessere animale, dell’Istituto superiore di Sanità e del Ministero della Salute, e nel caso si tratti di animali tipo cane e gatto anche del Consiglio superiore di Sanità. Si deve quindi pagare una tassa per ogni esperimento, e se tutto va bene dopo 4-6 mesi si può iniziare la ricerca.
È chiara la difficoltà della collaborazione e della competizione con altri Paesi europei, che seguono le direttive europee (mentre noi siamo accusati di infrazione). Anche gli studi clinici sono sottoposti a più controlli, ma vengono condotti quasi esclusivamente dall’industria farmaceutica, perché in Italia abbiamo fondi miserevoli per la ricerca scientifica. Si pensi che il Servizio sanitario nazionale spende in ricerca solo lo 0,2% dei suoi 120 miliardi di euro, mentre – ad esempio – l’industria degli smartphone investe il 10%.
La spesa per ricerca in Italia ammonta ufficialmente a circa l’1,2% del Pil, ma non è vero perché i bandi, come i giudizi e i pagamenti, sono sempre in ritardo di anni, e per somme minime richiedono un ingente lavoro amministrativo in quanto molte spese possono essere rimborsate solo a certe condizioni. Intanto, i Paesi europei spendono quasi il doppio di noi, la Germania arriva addirittura a circa il 3,5% del suo Pil. Per dare un’idea delle differenze, se volessimo solo avvicinarci alla spesa della Francia dovremmo spendere almeno 20 miliardi di euro in più all’anno.
Conseguentemente, anche il numero dei ricercatori in Italia (161mila) è circa la metà di Germania e Francia, perché abbiamo troppo poca formazione di ricercatori-dottorati di ricerca e troppo pochi posti disponibili, e perché mancano fondi per sostenerli. Ogni giorno inoltre perdiamo ricercatori, che cercano gloria in altri Paesi, e quando ottengono fondi europei vanno addirittura a spenderli in laboratori stranieri, vista la burocrazia a cui sarebbero sottoposti in Italia. Vale la pena sottolineare che i nostri ricercatori hanno una produttività comparabile con quella dei ricercatori di altri Paesi, ma manchiamo di 'masse critiche' per affrontare problemi importanti che richiedono multidisciplinarietà e moderne apparecchiature.
Non per caso non siamo stati capaci di sviluppare un vaccino, rimanendo vincolati alle decisioni delle multinazionali. Tutto ciò perché i nostri governi hanno sempre considerato la ricerca una spesa anziché un investimento necessario, in generale per l’innovazione e in particolare per generare salute e contribuire alla cura delle malattie. È tempo perciò di importanti cambiamenti, anche culturali, nell’affrontare il problema della ricerca scientifica nel nostro Paese visto che abbiamo una straordinaria opportunità con la disponibilità di fondi europei.
Tuttavia le informazioni che arrivano dal governo non sono molto incoraggianti per l’esiguità degli stanziamenti rispetto alle necessità e anche per la natura degli stanziamenti. Infatti si parla di maxi-progetti che devono includere 8-10 gruppi con almeno 30 ricercatori ciascuno (ma dove sono?). Vanno quindi pensati certamente bandi di concorso per aree ben definite, ma soprattutto abbiamo bisogno di bandi di concorso per aumentare il numero di ricercatori nelle strutture di ricerca, siano esse pubbliche, come università e Cnr, o private, ma non profit. Abbiamo bisogno di più ricercatori a un costo competitivo rispetto anche ad altre attività. Si può infatti calcolare che con un miliardo di euro si possono sostenere – dedotti 100 milioni per le attrezzature – ben 9.000 ricercatori cui si possono pagare stipendi decenti e mettere a disposizione risorse per lavorare.
Se realizzassimo un programma quinquennale, aumentando ogni anno di un miliardo, alla fine potremmo avere circa 45.000 ricercatori in più. Un incremento sostanziale. Il programma potrebbe essere sostenuto almeno 3 anni per ogni ricercatore in modo da permettere una formazione che dia autonomia di ricerca. È ora che le istituzioni scientifiche e i ricercatori di ogni livello scendano in campo, perché senza un numero adeguato di ricercatori – specie nel campo della salute – saremo sempre solo un buon mercato per gli altri Paesi che investono in ricerca.
Presidente Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs