Opinioni

Il Papa, i condannati a morte, Cafasso. Oltre l’umana giustizia

Riccardo Maccioni venerdì 4 novembre 2016

Chissà cosa si sono detti. Se le parole hanno lasciato il posto al silenzio, se per recuperare un passato di dolore e morte è bastato il vocabolario delle lacrime, se nel racconto erano previsti anche verbi al futuro. Perché non esiste domani per un condannato a morte, non ha speranze umane chi paga il prezzo di una colpa terribile o, peggio, per un delitto non commesso, non ci sono sogni nel cuore di chi è confinato nell’incubo della solitudine perenne. E forse in fondo è una curiosità inutile, non serve sapere di cosa si è parlato, se nei discorsi sono comparsi parenti, amici, magari un amore perduto, o se il nastro della memoria si è inceppato proprio lì, al momento di confessare o negare il delitto che ha spalancato le porte del carcere, quando la cella è diventata un brutto risveglio che ti toglie il sonno per sempre, una gabbia da cui si è condannati a non uscire più. Da vivi almeno.

Perché a contare davvero è il gesto, la coraggiosa umiltà del Pontefice che si china sull’ultimo degli uomini, la testimonianza che Cristo è venuto anche per i malati nell’anima, anzi soprattutto per loro, per gli scartati da tutti, per chi ha smesso persino di credere di aver diritto al perdono di Dio. Il Papa, ha detto l’arcivescovo Rino Fisichella presentando il Giubileo dei carcerati di domenica in San Pietro, ha telefonato a dei condannati a morte. E subito, inevitabile, come un riflesso condizionato, nella testa dei giornalisti è scattata la "caccia all’uomo": sarà il detenuto in Texas? Il Papa avrà chiamato in Oklahoma? O in Georgia? E dall’altra parte del telefono saranno stati dolci o rabbiosi con Francesco? Tutte domande, verosimilmente, destinate a non avere risposta, come non può trovare sollievo se non per un breve, fugace attimo, chi vede morire, per la mano armata della giustizia, l’assassino del proprio figlio, dell’amata moglie, dell’indimenticato marito.

No, il perdono è un’altra cosa, di cui si è capaci solo al culmine di un lungo percorso dentro se stessi, trovando in fondo all’anima risorse, spirituali e umane, che nemmeno sai di avere. Eppure è proprio da lì che può partire la rinascita, è in quei meandri invisibili se non al cuore, che si nasconde la speranza contro la realtà, il seme di una vita nuova, possibile anche per chi non ha futuro. No, non sappiamo cosa abbia detto il Papa al telefono, quali corde abbia toccato, se ha pregato o meno con il condannato a morte, però crediamo di non andare troppo lontano dalla realtà nel pensare che nel suo discorso siano risuonate spesso le parole "giustizia" e "perdono", l’una che non delegittima l’altra, che, come una carezza sul volto di chi non pensa di meritarla, Francesco avrà descritto l’infinita misericordia di Dio, che non esclude nessuno, a patto che si accetti di riceverla. E ci si penta.

Come il buon ladrone di cui parla il Vangelo, capace «di rubarsi il cielo», diventando testimone della grazia di Dio. O meglio, per citare le stesse parole del Papa durante un’udienza generale, «modello del cristiano che si affida a Gesù». Proprio lui, un condannato a morte. Salvato perché ha riconosciuto la propria colpa e l’innocenza del Signore, la sua miseria e l’onnipotenza di un Dio che accetta l’umiliazione della croce, il suo peccato e l’infinità bontà del Padre. Gesù infatti «è sulla croce per stare con i colpevoli». E in questo modo offre, porta la misericordia, la salvezza di Dio a tutti. La stessa sollecitudine, la medesima vicinanza, cuore a cuore, che era "l’abito" di san Giuseppe Cafasso, buon samaritano del 1800, il prete simbolo della santità sociale piemontese. «Essere sacerdote al servizio di Dio, totalmente ed unicamente», il suo progetto, che alimentava pregando sempre, e frequentando gli ultimi tra gli ultimi. Cioè i malati incurabili, le prostitute, i carcerati, ovviamente i condannati a morte. Sessantotto, si dice, ne abbia accompagnati al patibolo, convertendoli e assolvendoli tutti, al punto da chiamarli «i miei santi impiccati».

Sembra un paradosso ma non lo è. Perché dobbiamo saper credere che la misericordia di Dio va oltre i confini della giustizia, arrivando a trasformare persino il cuore più duro, che nell’abbraccio del Padre c’è posto per tutti, buoni o presunti tali, e cattivi. Che, in fondo, ciascuno di noi è un equilibrista in bilico tra colpa e speranza, che si allena giorno dopo giorno per imparare a rubarsi il cielo.