Denatalità e mancanza di manodopera. Occupazione e figli: bisogno di sicurezza
La ripartenza dopo i lockdown si accompagna a una serie di fenomeni piccoli o grandi che continuano a ricordarci come la vita ritrovata non sia esattamente quella "di prima", ma una sua versione limitata. Alcuni di questi cambiamenti saranno temporanei altri probabilmente diventeranno strutturali. Una di queste novità, ancora tutta da decifrare, è la difficoltà delle imprese a trovare lavoratori. Nel turismo e nella ristorazione il problema è più evidente, ma non è solo qui che sono emerse criticità. Sul banco degli imputati è stato messo subito il Reddito di cittadinanza, e una sua responsabilità non si può escludere. Il fatto è che i lavoratori mancano anche in altri Paesi, non solo in Italia: in Francia, Spagna, Stati Uniti, un po’ dappertutto la ripresa della vita sta presentando questo problema, che vi sia o meno un reddito garantito o sussidi generosi. Se il fenomeno è diventato così diffuso, le spiegazioni semplici allora non bastano, e servirà del tempo per capire cosa accade veramente.
Uno dei motivi che sta emergendo, tra i molti possibili di questa crisi dell’offerta di lavoro, riguarda la fatica che le persone sembrano dimostrare nell’accettare proposte di lavoro poco stabili, dopo una così lunga fase di incertezza. La notte del Covid ha privato tanti del lavoro o di entrate sicure, ha dato il tempo di trovare nuovi assetti di sopravvivenza – vuoi con sussidi, vuoi con sostegni familiari o altro – e adesso? Vale veramente la pena uscire da una bolla che resiste per qualcosa che può durare poche settimane, pochi mesi, e che comunque non cambia la vita? O per un lavoro che tra qualche anno sarà spazzato via da un’innovazione tecnologica o dall’ennesima svolta epocale?
Suggeriscono anche questo – come riporta l’analisi di Elena Molinari – le indicazioni che giungono dagli Stati Uniti, dove l’alibi-accusa del Reddito di cittadinanza non c’è. Veniamo da una stagione di insicurezza insolitamente estesa, se si pensa a quello che è accaduto nel mondo sviluppato dopo la crisi del 2008, e il Covid può aver assestato un colpo ulteriore e non indifferente. In questo senso è utile guardare a un altro effetto di questa fatica, che è anche causa del problema: la crisi della famiglia, intesa non come nucleo che accoglie e aiuta i propri figli in difficoltà, ma come progetto di coppia, una nuova cellula che si forma e avvia un percorso nella società. È l’altra faccia della questione: non ci sono solo i giovani che non accettano un lavoro perché preferiscono restare in casa; ci sono anche giovani che, pur se lo desiderano ancora, viste le circostanze, hanno messo al di fuori della propria prospettiva di realizzazione, nel breve o medio periodo, l’idea di costruire una famiglia e avere dei figli.
La crisi delle nascite nel mondo sviluppato non è un’invenzione della pandemia, arriva da più lontano, e ci dice un’altra cosa: se non ci sono (più) figli da mantenere, anche l’urgenza di un lavoro diventa meno impellente. Qualche entrata, e delle relazioni sufficientemente buone, sono un obiettivo più alla portata che non una casa, una famiglia, un lavoro dignitoso e stabile, dei figli.
Per capire cosa sta accadendo servirà tempo. Ma nel momento in cui il "mercato del lavoro" è in difficoltà, probabilmente ci si deve chiedere se in questo non vi sia anche il fallimento di un sistema economico. L’individuo solo e senza legami stabili, voluto e cullato dal capitalismo perché rappresenta il consumatore ideale (e il cittadino più condizionabile), sta diventando un problema ora che quella persona sola ha abbassato le sue aspettative, e comincia a venire meno anche la "riserva" di lavoratori. Se è così – e lo è – la risposta può e deve essere articolata su diversi piani, ma di certo passa dall’impegno per creare condizioni di maggiori sicurezze, di minore precarietà, di sane e basilari relazioni "forti". Perché è la stabilità che può far desiderare maggiore stabilità, e alimentare la fiducia di cui una società ha bisogno per funzionare.