L'imprevedibile dialogo e le resistenze interne. Obama e Rohani «alleati» per il disarmo
Un’accusa che appare paradossale, dato che nei due primi mesi della sua presidenza l’Iran ha visto un rallentamento dell’inflazione, una ripresa dell’economia e – soprattutto – l’attenuazione di quell’isolamento in cui si era volontariamente infilato durante gli anni delle disastrose presidenze Ahmadinejad. Parallelamente, anche Obama viene sistematicamente accusato di debolezza dal Congresso (al cui interno sono attivissime le lobby anti-iraniane), dai repubblicani e da Israele ogni volta che si mostra pronto a confrontarsi direttamente con l’Iran, il nemico ontologico di Washington di questi ultimi decenni. Così entrambi hanno dovuto in qualche modo attenuare l’impatto di una mossa clamorosa, attesa da più di trent’anni e compiuta in questi giorni approfittando dell’Assemblea generale Onu, ossia una telefonata diretta fra il presidente statunitense e il suo omologo a Teheran. Non che non vi siano stati contatti informali e indiretti in questi anni, ma nessuna delle due parti si era mai spinta fino al riconoscimento diretto dell’altro.
Davvero, dopo anni di delusioni, paure, minacce di bombardamenti e ritorsioni asimmetriche, Obama e Rohani sembrano intenzionati a cercare un compromesso tanto sulla questione siriana quanto su quella nucleare. Che è la premessa ineludibile per la riduzione della sanzioni che colpiscono duramente Teheran. Ma soprattutto la strada obbligata per cercare di stabilizzare un Medio Oriente lacerato al proprio interno da troppe conflittualità geopolitiche, religiose e identitarie.
È ovvio che accettare di telefonarsi non significa aver raggiunto un accordo: le differenze e le contrapposizioni rimangono evidenti fra le due parti. Ma è il simbolo di un cambio di passo, soprattutto da parte iraniana: Rohani ha messo in campo una squadra per i futuri negoziati che coinvolge i suoi uomini migliori e più aperti verso l’Occidente. Paradossalmente, sul nucleare, i due presidenti sono molto più vicini di quanto si possa immaginare. I loro veri avversari militano infatti sotto le loro stesse bandiere o fra i loro alleati.
Rohani non deve temere tanto le pressioni di Obama, quanto gli avvertimenti (e le velate minacce) dei pasdaran e degli ultraradicali che hanno tratto potere e ricchezze dall’isolamento del Paese e dalla repressione dei riformisti. Un Iran nuovamente aperto alla comunità internazionale, libero dall’ossessione nucleare rappresenterebbe la fine del loro strapotere. Dall’altra parte, la situazione è quasi speculare.
L’Amministrazione democratica ha un disperato bisogno di un successo in Medio Oriente dopo una lunga catena di umiliazioni e fallimenti. Ma sulla strada di un compromesso con Teheran vi sono le resistenze del Congresso (ossessivamente ostile a ogni 'cedimento' verso l’Iran), i dubbi degli alleati arabi (che temono che un accordo possa marginalizzarli), e soprattutto le paure di Israele. Paure certo giustificate, ma che Netanyahu in questi anni ha populisticamente ingigantito per accreditarsi come l’uomo forte che difende Israele, e che ha ribadito lunedì con forza durante gli incontri a Washington e ieri dalla tribuna dell’Onu.
Insomma, sulla strada del dialogo su Siria e nucleare, i due presidenti sanno di dover incontrare una lunga serie di difficoltà, ostacoli e trabocchetti. Se si mostreranno rigidi, rischieranno di bloccare nuovamente le trattative; se disponibili, rinfocoleranno l’ostilità di chi li accusa di tradire il proprio Paese. Ma sanno anche entrambi di non avere alternative: o si impegnano ora per raggiungere un compromesso credibile o un nuovo conflitto in Medio Oriente diventerà quasi inevitabile. In fondo, la storia ci ha consegnato 'alleati' ancor più improbabili e sorprendenti di Obama e Rohani.