Caso Piemonte. È o non è «un-diritto» per le donne la vera libertà di essere madri
Tristi proteste per una legge piemontese che punta a rimuovere le cause dell’aborto è una ferita, un diritto, una lacerazione, una conquista, una sconfitta, un rimedio estremo, una scelta libera, una costrizione, un omicidio, una vittoria... Ogni definizione è associabile a uno sguardo e un approccio differente – e spesso ancora inconciliabile – alla pratica depenalizzata in Italia 44 anni fa con la legge 194, che la vincolava a precise condizioni per evitare che diventasse un «mezzo per il controllo delle nascite» (articolo 1).
Da allora lo Stato ha autorizzato oltre 6 milioni di interruzioni volontarie di gravidanza, a un ritmo partito dalle 234.801 del 1982 fino alle 67.638 del 2020, minimo storico, con un calo continuo negli anni più recenti e una media di 76.566 nell’ultimo quinquennio. Numeri che assommano altrettante storie, ognuna diversa dall’altra, e che dunque non autorizzano a considerare l’aborto come un 'fenomeno', ovvero un’astrazione: in ciascuna decisione di abortire un figlio c’è infatti un motivo tanto pressante da fare ombra persino a una maternità, che pure per la natura umana è un richiamo potentissimo, quasi invincibile.
Cosa c’è di più forte di una vita che si forma nel grembo di una donna, che chiede accesso al mondo, integralmente affidata a chi la custodisce (e a chi le sta accanto)? La scelta di porle termine dunque dev’essere spinta da forze ancora superiori, o meglio, che nel momento angoscioso di una decisione su una vita umana già pulsante devono sembrare insostenibili. Ci è impossibile comprendere la drammaticità di quell’ora se la priviamo della sua concretezza: una coppia, una donna, una vita che cresce, già formata, e invece un muro, una parete verticale che si staglia davanti alla propria vita, apparentemente invalicabile. Solo questo può spingere ancora oggi ad abortire. Perché di figli la nostra società sente un bisogno che cresce, finalmente consapevole che a corto di nuove vite si finisce per essere a corto anche di speranza, di sogni, di futuro.
E chi a un figlio rinuncia, pur desiderandolo, vuol dire che si è trovato addosso un impedimento che sovrasta la nostalgia per una maternità (e paternità) alla quale in cuor proprio forse non si vorrebbe rinunciare. Quanti di quei 76mila aborti passerebbero nella casella dei neonati se si estinguesse una delle cause che la stessa legge 194 disponeva di rimuovere «specialmente - siamo all’articolo 5 - quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante»? Siamo nel campo della libertà di scelta, tale solo se c’è chi si mette al fianco della donna che si sente 'senza alternative' e le offre un aiuto vero.
È o no questo il vero diritto fondante della nostra società: poter scegliere di dare la vita senza che a impedirlo ci siano condizioni materiali insostenibili da una persona – o una coppia – che si sente abbandonata da tutti? A volte – quasi sempre – basta davvero poco: anche un aiuto economico vale assai più come il segno di una società che non resta indifferente davanti al destino di un bambino, avvertendolo come un bene per tutti anche prima che nasca, e che non lascia in solitudine chi si trova alle prese con una maternità che pare una maledizione (cioè il suo opposto). Si sente reclamare l’intangibilità del 'diritto di abortire', ma la realtà ci parla con forza di ben altri diritti.
Una donna che viene abbandonata dal padre del bambino perché non vuole abortire quale diritto chiede? E la ragazza buttata fuori di casa dalla famiglia che non accetta la sua gravidanza? O la giovane sotto minaccia di licenziamento per la maternità annunciata? E ancora: è davvero l’aborto il diritto di cui ha bisogno l’immigrata in condizioni di indigenza estrema, la precaria che con il bambino perderebbe tutto il resto, la madre single che già cresce un altro figlio senza che nessuno la aiuti, la donna reclusa in casa per tradizioni che la relegano a ruoli servili, l’adolescente estromessa da ogni relazione perché 'poteva stare più attenta', la lavoratrice che la società fa sentire perdente solo perché pensa di tenersi il figlio inatteso, la dipendente che ha già pagato in termini di carriera un’altra maternità? Unirsi per rimuovere queste sanguinose ingiustizie: ecco cosa servirebbe adesso, e sarebbe uno scatto di umanità che alle donne restituirebbe quella dignità oggi ancora vilipesa in troppi modi.
E invece tocca assistere alla trita e triste polemica contro il provvedimento col quale la Regione Piemonte ha stanziato 400mila euro (poco per quanto servirebbe, tanto per il niente che c’era) a sostegno delle maternità messe a rischio da ristrettezze economiche e condizioni materiali difficili, delibera accusata di conculcare il 'diritto ad abortire'. La realtà, quella vera, è altrove, ma c’è chi si attarda a issare bandiere sgualcite di vecchie battaglie sorpassate dai fatti, ignorando dov’è la vita vera, e il dovere di solidarietà. Quale diritto è calpestato, oggi?
Non certo la possibilità di abortire, a meno che i 68mila aborti del 2020 siano considerati pochi. Sappiamo che il Paese e le donne sono molto più avanti di queste battaglie che sanno di vecchio. Mettersi accanto a chi si sta chiedendo se diventare mamma, togliere almeno gli impedimenti economici, mostrarle che non sarà totalmente sola perché in quella vita si vede una bellezza e non un problema: ecco cosa occorre fare adesso, non disprezzare per ragioni di fazione il poco che si tenta per cambiare una storia che troppo spesso è di resa e di sofferenza. Cambiare passo si può, una buona volta. Chi ci sta?