Dopo le elezioni. Il nuovo presidente in Iran: parlare con Teheran si deve
A molti, dentro e fuori l’Iran, era sembrato solo uno specchietto per allodole. Per convincere qualche cittadino in più a partecipare al rito delle elezioni presidenziali in una Repubblica islamica piegata da anni di brutale repressione delle proteste popolari e da una crisi economica frutto degli avventurismi geopolitici e della corruzione del regime.
Pochi scommettevano che il moderatissimo candidato riformista, il settantenne Massud Pezeshkian, avesse chance di arrivare al ballottaggio, anche alla luce dei suoi deludenti risultati in precedenti elezioni. L’idea prevalente era che il sistema di potere sempre più repressivo l’avesse accettato come candidato perché preoccupato di un’astensione di massa che minava la retorica della partecipazione popolare, vista quale elemento di legittimazione formale di un regime odiato dalla grande maggioranza degli iraniani.
In Occidente, il pensiero prevalente era che la sfida vera sarebbe stata fra una scelta cattiva e una pessima: o il presidente dell’Assemblea parlamentare ed ex sindaco di Teheran, Mohammed Bagher Qalibaf, o l’ex negoziatore nucleare, il falco super-radicale Said Jalili. Una visione che non teneva tuttavia conto di quanto Qalibaf fosse screditato tanto fra la popolazione quanto fra i circoli di potere più vicini alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Nonostante la bassa partecipazione al voto, Pezeshkian è così riuscito ad arrivare al ballottaggio di venerdì, con un confortante 42% di consensi, avendo come sfidante proprio Jalili.
Il neopresidente dell'Iran - ANSA
Per tutta la scorsa settimana si è scommesso su quale sarebbe stato il comportamento del nizam, il sistema di potere post-rivoluzionario. Perché era chiaro che la stragrande maggioranza degli iraniani, pur senza avere molta fiducia nel candidato riformista, temeva – se non odiava – il suo avversario, rappresentante della parte più cupa del regime. Il voto popolare sarebbe stato alterato per impedire la vittoria di Pezeshkian o si sarebbe accettata una sua vittoria, dato che il presidente della Repubblica non ha la forza di incidere sui meccanismi di potere reali, come ben dimostrato dal fallimento di Mohammad Khatami, il grande presidente dei riformisti che aveva inutilmente tentato – fra il 1997 e il 2005 – di liberalizzare dall’interno la Repubblica islamica?
Nel 2009, per fermare il candidato riformista che sembrava avviato a battere l’ultra-radicale presidente Ahmadinejad, erano stati compiuti brogli massicci, fatto che aveva innescato grandi proteste popolari, duramente represse nel sangue. La vittoria di Pezeshkian nel ballottaggio di venerdì ci dice che Khamenei non ha voluto correre il rischio di nuovi spargimenti di sangue, dopo che il regime ha faticosamente sedato le proteste di questi ultimi anni. E che cercherà di rendere innocuo il nuovo presidente.
Cosa aspettarci allora da questa insperata svolta riformista? Poco, va detto: ancora una volta il presidente finirà per essere più il rappresentante dell’opposizione moderata ai conservatori radicali che il vero decisore politico. In fondo, durante le presidenze riformiste, l’Iran era l’unico Paese al mondo in cui la polizia picchiava chi gridasse “viva il presidente”. Un assurdo apparente che dice molto dei contorti meccanismi di potere.
Eppure, sarebbe un grave errore derubricare quanto avvenuto in Iran come irrilevante. Già tante volte in passato, l’Occidente – a volte per scarsa comprensione, a volte per vera malafede – non ha aiutato con le sue decisioni le forze moderate di Teheran, finendo con l’aiutare paradossalmente la propaganda dei pasdaran e dei conservatori.
Non commettiamo lo stesso errore adesso: senza nutrire speranze velleitarie che il nuovo presidente possa cambiare drasticamente le politiche interne, cerchiamo di dare aperture di credito e mostriamoci disponibili a dialogare con un Paese che – ci piaccia o no – è fondamentale per la stabilità (o l’instabilità) del Medio Oriente. Il muro contro muro e la demonizzazione dell’Iran di questi anni non lo ha indebolito, anzi, lo ha radicalizzato e reso più aggressivo in tutta la regione. Con il conflitto che ancora insanguina Gaza, il rischio di una escalation con Hezbollah, gli Houthi che ancora bloccano i corridoi commerciali del Mar Rosso, le motivazioni per tentare di parlare seriamente con Teheran non mancano di certo.