Reportage. Nuovo allarme per Chernobyl: altre radiazioni
A pochi giorni dal trentacinquesimo anniversario del disastro che l’ha vista protagonista, la centrale nucleare di Chernobyl fa ancora parlare di sé. Questa volta a destare preoccupazione è un lieve aumento di attività neutronica registrata all’interno del New Safe Confinement, la struttura ad arco che dal 2017 ricopre la pila di blocchi di cemento sotto cui è sepolto ciò che rimane del reattore numero 4, esploso il 26 aprile 1986 rilasciando ingenti quantitativi di materiale radioattivo nell’ambiente. La maggior parte di questo materiale si è depositato nei pressi della centrale, ma gli elementi più leggeri si sono diffusi nell’aria e, trasportati dai venti, hanno causato la nube radioattiva che tanto ben conosciamo.
Durante l’incidente, le barre di combustibile (in totale 170 tonnellate) si sono fuse, a causa dell’alta temperatura, assieme ad altri elementi del reattore (lo zirconio delle barre, la grafite, la sabbia, il boro e i silicati lanciati dagli elicotteri per spegnere l’incendio e schermare le radiazioni) formando il cosiddetto corium, depositatosi alla base dell’edificio. Per evitare la dispersione, immediatamente dopo l’accaduto, parte del materiale radioattivo più esposto venne rimosso con un’operazione complicata e pericolosa che impiegò circa cinquemila uomini e sette mesi di lavoro. Ciò che non poté essere asportato, perché sepolto dalle macerie o perché troppo radioattivo, venne coperto con materiale di fortuna e quattrocentomila metri cubi di cemento che, con l’andar del tempo, iniziò a mostrare pericolose fratture le quali, oltre a esporre le polveri radioattive all’aria, lasciavano filtrare l’acqua piovana. Per evitare un possibile aumento delle reazioni di fissione (il corium contiene pur sempre una limitata quantità di uranio-235) venne immesso anche del nitrato di gadolinio, un assorbitore di neutroni, le particelle che sono responsabili della fissione dell’uranio.
Per isolare il reattore dall’esterno, nel 2017 si è provveduto a riparare l’intera struttura con un enorme sarcofago (il New Safe Confinement, Nsc), un arco alto 110 metri, largo 260 e lungo 165, dal costo di un miliardo di dollari, che permette di riparare il reattore numero 4 dagli agenti atmosferici e contenere le radiazioni emesse. Oggi questo corium, pur non essendo più caldo, continua ad esalare radioisotopi in quantità elevate che sono schermate dal cemento sotto cui è sepolto. Ma, come ha detto Neil Hyatt, chimico nucleare dei materiali dell’Università di Sheffield, è «come la brace che arde in un barbecue». E come la brace, anche questo materiale composito con l’andar del tempo si sgretola. Il famoso 'piede di elefante', la massa compatta e dura di circa due tonnellate formatasi durante l’incidente, è oggi fratturata in più parti. Questo sbriciolamento aumenta la possibilità di presenza di polvere all’interno dell’Nsc.
Per tenere sotto controllo i livelli di radioattività, l’intera centrale è disseminata di dosimetri. Recentemente alcuni di questi hanno iniziato a registrare un lieve aumento dell’attività neutronica, un tipo di radiazione emessa da neutroni liberi che si formano nelle reazioni di fissione. Essendo di carica neutra, queste particelle hanno un elevato potere penetrante. Ora gli scienziati stanno cercando di capire se questa 'brace' radioattiva tornerà a sopirsi per autonomamente o se, invece, continuerà ad ardere con il potenziale, ma remoto, pericolo di aumentare il livello di radiazioni. Maxim Saveliev, dell’Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari di Kiev ha espresso una certa cautela: «Ci sono tante incertezze, ma non possiamo escludere la possibilità di un incidente». Si esclude però un danno ambientale come quello avvenuto nel 1986: al massimo, calcolando la quantità di combustibile nucleare presente, si potrà assistere a un aumento delle polveri radioattive che resterebbero confinate all’interno dell’Nsc.
Resta da chiarire il motivo di questo impercettibile aumento di attività neutronica. Una probabile causa del rilevamento potrebbe essere proprio l’acqua piovana e l’umidità che, tra il 1986 e il 2017, sono penetrate nelle fessure del cemento. Essendo l’acqua un ottimo moderatore, potrebbe aver rallentato i neutroni favorendo l’innesco della reazione di fissione (i neutroni lenti, meno energetici, hanno più probabilità di dividere il nucleo di uranio di quanto ne abbiano quelli veloci, in quanto aumenta la sezione d’urto). Il livello di neutroni sale molto lentamente (in alcuni punti di misura la quantità rilevata è raddoppiata in quattro anni, ma non in modo uniforme). Siamo comunque ancora lontani da un 'risveglio di Chernobyl', come paventato da molti. Ci vorranno anni per valutare l’andamento della situazione e accertarsi se (il poco) uranio-235 rimasto intrappolato nel corium abbia effettivamente iniziato una reazione di fissione autosostenuta o se quello registrato sia, come molti esperti pensano, un falso allarme.
Con l’Università di Bristol si sta comunque pensando di utilizzare robot sufficientemente resistenti alle radiazioni per poter trapanare i blocchi di cemento sino a raggiungere il corium e inserire del boro, ottimo assorbitore di neutroni che potrebbe rallentare l’attività nucleare. Gli ingegneri dell’ateneo britannico hanno già testato un piccolo robottino, chiamato Spot, per recuperare misure radiologiche in punti ciechi della struttura irraggiungibili dall’uomo. Resta comunque un altro pericolo all’interno della zona di confinamento: l’enorme copertura biologica superiore (Upper Biological Shield) che copriva il reattore numero 4, dopo essere stata sventrata dall’esplosione, è ricaduta sul reattore posizionandosi in verticale a 15 gradi sui detriti oggi ricoperti dalla struttura. Le sue mille tonnellate e il suo equilibrio precario sono sempre stati motivi di preoccupazione per gli ingegneri e gli scienziati, in quanto un minimo spostamento potrebbe smuovere un’enorme quantità di materiale contribuendo ad aumentare la radioattività interna. Questo potrebbe precludere l’entrata nella zona per diverse settimane, se non mesi, impedendo o rallentando le attività di controllo e ripristino della struttura.