Nelle foto i gruppi di migranti al confine tra la Turchia e la Bulgaria sembrano manipoli di poveri sbandati, pellegrini incappucciati sotto la pioggia battente, avvolti in coperte e tovaglie, le barbe lunghe di chi da giorni dorme all’addiaccio. Ma ieri notte vicino a Sredets, in Bulgaria, i militari di frontiera hanno sparato e ucciso un migrante, o forse un profugo, non sappiamo. È la prima volta. In molte migliaia i migranti finora sono affogati nel Mediterraneo, a centinaia sono finiti soffocati nei cassoni dei Tir diretti in Occidente, o – in chissà quanti – sono caduti stremati di fatica e di fame sui sentieri impervi che conducono verso l’Europa. Ma sparare no, non era accaduto ancora; molto probabilmente in Libia sì, ma la Libia è terra di nessuno e lì si sono usati, in modi diversi è sempre ferocemente mirati contro neri e cristiani, anche i coltelli. Dentro i confini dell’Europa, non si era mai sparato sui migranti. E ci dicono che è stato un colpo esploso in aria e ricaduto, un incidente insomma, e che, poi, nello zaino quell’uomo aveva una pistola. Nello zaino però, ammesso che sia vero, e che nessuno la pistola ce l’abbia infilata per darsi una ragione. Non una pistola in pugno; e forse per chi viene a piedi dall’Afghanistan, tra trafficanti e rapinatori, una pistola nello zaino (mai sinora segnalata nel poverissimo bagaglio abituale) potrebbe anche essere l’ultima
chance per sottrarsi a predoni e assassini.
È andata così, comunque. Dicono che quel gruppo di stranieri aveva un atteggiamento "aggressivo", non volevano farsi arrestare, ed è partito il colpo. Un uomo, forse un ragazzo, di cui per ora non sappiamo il nome, si è accasciato; quando già aveva messo piede in quella che considerava la sua speranza, l’Europa. Nelle stesse ore nell’Eurotunnel è morto, investito da un treno, l’ennesimo migrante che tentava di arrivare a Londra. Finora i 25 stranieri trovati sfracellati nella galleria sotto la Manica erano molto giovani, ventenni o poco più: uomini forti e agili, coraggiosi abbastanza per tentare di saltare sui vagoni in corsa. Di tutti i modi per forzare una fortezza inespugnabile, il più audace.
Immaginiamoci il treno che si presenta nel buio, i fari accesi come occhi di fiera, il fragore assordante dell’acciaio lanciato nella corsa, lo spostamento dell’aria che avverte della terribile forza della locomotiva che si avvicina. Qualcuno, eppure, nel buio, quando il treno lo affianca, salta, disperatamente salta: cercando un gancio, un gradino, un appiglio. Qualcuno forse perfino ce la fa, e la notizia si sparge per Calais, fra le ombre che la sera tentano di avvicinarsi all’imbocco del tunnel. E così qualcuno, ancora, la sera dopo, ci prova di nuovo. Proprio come, ieri, ha fatto la vittima numero 26, trovata così a brandelli sui binari, che non si sa nemmeno se era uomo o donna, giovane o maturo.
Noi lo immaginiamo come gli altri, ragazzo, affamato, la barba lunga, gli occhi ardenti di emozione perché ormai ce l’aveva quasi fatta, ormai la meta era così vicina. Lo immaginiamo come un nostro figlio ventenne, solo più magro e con gli occhi più gravi, e come sospinto da un immenso, e per noi cresciuti in pace quasi incomprensibile, desiderio di vita.
Perché credevano, quei ragazzi e quelle donne e uomini, quelle ombre in forsennata marcia verso l’Europa, che questa nostra terra fosse in una cosa almeno del tutto diversa dalla loro: che fosse in pace, che la vita di ciascun uomo qui avesse un valore. Che schianto al cuore deve essere stato, l’altra notte, al confine bulgaro, lo sparo esploso contro quella banda di pellegrini stremati. Anche qui, anche in Europa ci sparano? si sarà chiesto forse quell’uomo, sgomento – un istante prima del buio che lo ha preso con sé per sempre.Pensiamo a lui, così come al ventiseiesimo morto di Calais, ombra di cui non sapremo mai il nome: come militi ignoti, caduti sul fronte di una guerra mai dichiarata eppure aspramente, silenziosamente combattuta. Forse fra cinquant’anni, quando l’Europa sarà fatta anche dei figli di profughi e migranti, parrà assurdo che in tanti siano morti per entrare in questa nostra "fortezza" desiderata proprio per fuggire la morte. Forse se ne racconterà sui libri di storia, e a Calais una lapide di marmo ricorderà quei ragazzi che saltavano sui treni. E i viaggiatori, che saranno ormai figli e nipoti di inglesi e di francesi e di afghani e di siriani, leggeranno distrattamente. "Pensa – dirà qualcuno più attento a un figlio bambino – anche il nonno è passato da qui, e tu sei nato perché lui ce l’ha fatta". E allora forse sembrerà assurda quella guerra lontana, mai dichiarata ma combattuta, per "difendere" l’Europa: da quei fuggiaschi da guerra e miseria che venivano a continuarne, insieme ai nostri figli, la storia.