L'emergenza climatica e il suo vocabolario. Nuove parole verdi ci dicono la realtà
Upcycling: secondo il Cambridge Dictionary, è la parola più rappresentativa del 2019. La sua comparsa nel vocabolario risale al 2011 e, da allora, le ricerche sul significato del termine sono cresciute del 181%, raddoppiando – addirittura – nell’ultimo anno. A noi occorre un’intera frase, con qualche inciso, per tradurre la stringatezza dell’inglese: “l’utilizzo di materiali di scarto, destinati a essere gettati, per creare nuovi oggetti dal valore maggiore del materiale originale”. In italiano un termine appropriato ancora non esiste: “riciclo” non contiene il concetto di valorizzazione né basta aggiungere “creativo” per centrare la traduzione. Alcuni si spingono a descrivere l’“upcycling” come l’arte della riconversione, che virtuosamente prolunga il ciclo di vita dei prodotti.
Meglio segnarsela, questa parola, perché rischia di entrare nel nostro vocabolario quotidiano: il tema ambientale, compreso il problema della riduzione dei rifiuti, influenza anche il dizionario – e non da oggi – e ha bisogno di parole nuove per esprimere concetti, problemi e comportamenti inediti. Gli esempi sono molti: per restare in ambito anglofono, sempre il Cambridge Dictionary – che dal 1995 pubblica dizionari di inglese per studenti e da oltre 80 anni opera in Italia come ente certificatore del livello di questa lingua – registra tra le novità “plastic footprint” (la misurazione, considerata in termini di danno ambientale, della quantità di plastica che ciascun individuo scarta) e “flight shaming” (la vergogna provata da chi usa l’aereo pur consapevole che i voli hanno emissioni di grande impatto). Anche sfogliando i nostri vocabolari capita di incrociare termini ormai considerati d’uso comune come “plastisfera” (gli ecosistemi che si sono evoluti per vivere in ambienti plastici prodotti dall’uomo), “plogging” (raccogliere i rifiuti da terra mentre si fa jogging), “carbon free” (con ridotte emissioni di CO2), “guerrilla gardening” (il giardinaggio praticato su terreni abbandonati, aree dismesse, aiuole cittadine, per migliorare il verde urbano), “ecotassa” (che come “ecoscettico” non ha bisogno di spiegazioni...). E via elencando. Ci sono anche parole che la consapevolezza ambientale ha riempito di ulteriori significati, per esempio “sostenibile” e “circolare”.
Come diceva Galileo: «Prima furon le cose, e poi i nomi». Nel caso della crisi dell’ecosistema, prima ci sono stati i problemi e, ora, si presenta la necessità di chiamarli: perché chiamarli ce ne rende consapevoli. Dare un nome alle cose è il modo principale per consegnarle all’esistenza. Alla storia e al loro destino. Nella Genesi (2:20-21), “avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo” Dio li porta davanti ad Adamo perché dia loro un nome, “per vedere come li avrebbe chiamati”. Questa è una capacità unica che è stata concessa al genere umano: elaborare il linguaggio, le parole che formano e identificano i concetti. Cioè la capacità di far diventare familiare lo sconosciuto, di precisare ciò che prima era sfocato. Dio ha voluto concedere ad Adamo anche, o soprattutto, un 'dominio' sul creato: nella cultura biblica “dare un nome” designa la facoltà di dominare, inscindibile dall’esercizio della responsabilità. In questo senso, della responsabilità, è incoraggiante che si moltiplichino termini che mettono a fuoco con precisione la realtà del momento, di un Pianeta sull’orlo del collasso, e ancor più confortante sarebbe trovare sui vocabolari – ma ci arriveranno – anche quelli che propongono soluzioni. Che descrivono questioni appianate.
Bisognerà trovarle. Per il bene e il male, il positivo e il suo contrario. Senza una parola a definirlo niente può essere indicato, compreso, discusso. Per entrare a pieno titolo nelle coscienze, prima, e nella discussione pubblica, poi, occorre che le questioni abbiano un nome. E poco importa che a noi tocchi, molto spesso, prenderli a prestito dall’inglese, quei nomi. Dedichiamoci al plogging se può frenare il global warming, preferiamo le attività carbon free se contrastano il climate change. Più guerrilla gardening per tutti!