Si profila una fase nuova per la politica italiana. Certo faticosa, ma
interessante e coinvolgente come possono diventarlo – se condotte con lungimiranza
– tutte le transizioni da un tempo politico a un altro. Il voto amministrativo
2011 (avviatosi il 15 e 16 maggio e completatosi ieri pomeriggio, pur con
un importante tempo supplementare in Sicilia) offre questa indicazione
e questo senso a un itinerario che si va delineando già da qualche mese.
Il vecchio bipolarismo "furioso", quello nato nel 1994 e che tre anni fa
si era cercato invano di piegare in senso bipartitico, è in evidente crisi.
Anche se il governo di centrodestra non è in crisi e, a quanto è dato di
capire, per logica di sopravvivenza e per interessi convergenti di tutti
i principali attori politici, non lo sarà fors'anche sino alla fine naturale
della legislatura. Se sarà davvero così, ci sarà il tempo – pur in una
stagione di governo difficile ed esigente – per aprire il cantiere della
"ristrutturazione" di partiti e alleanze. E questo sarà certamente un bene.
La primavera elettorale, come si vede, ha insomma prodotto frutti strani,
attraenti e complicati. Ma stavolta i contorni del risultato e della tendenza
che disegna appaiono piuttosto chiari. Le vittorie – a cominciare da quella
di Giuliano Pisapia a Milano e di Luigi De Magistris a Napoli – fanno sempre
rumore, si sa, ma le sconfitte non scherzano. Anzi, sono proprio le sconfitte
a incidersi e a risaltare con più forza in questo verdetto di maggio.
Per la prima volta da anni, il centrodestra capitanato da Silvio Berlusconi
e dal 2008 imperniato sull'asse preferenziale (e pressoché esclusivo) tra
Pdl e Lega incassa – come hanno ammesso in coro i big dei due partiti
– una «sberla». Anche se a prima vista non si tratta di una frana (nel
computo totale l'attuale maggioranza di governo passa, nei 30 Comuni maggiori,
da 10 governati a 8), quando si scruta nel dettaglio e nei territori si
capisce che c'è stata una notevole inversione del trend che vedeva questa
coalizione recuperare, anno dopo anno, posizioni rispetto a un centrosinistra
tradizionalmente ben radicato nelle realtà amministrative locali. E c'è
di più. I ballottaggi hanno reso più nitido un dato emerso sin dal primo
turno: la Lega Nord non beneficia delle battute d'arresto del Pdl e perde
a sua volta posizioni di rilievo (come a Novara) o scommesse forti (come
quelle competitive "con tutti" – alleati nazionali compresi – lanciate
in Lombardia). Ma soprattutto salta agli occhi l'impressionante rottura
del feeling tra l'attuale premier e un elettorato lombardo e settentrionale
e che gli aveva sempre e comunque garantito un alto tasso di gradimento.
Per questo il verdetto più sonoro, sommando i numeri di primo e secondo
turno e facendo la tara del risultato siciliano che si completerà tra due
settimane, è sinora proprio quello che riguarda Berlusconi e che lui stesso
– presumendo troppo – aveva invocato e che, alla vigilia dei ballottaggi,
era riandato a cercare anche con l'ostentata esportazione sulla scena internazionale
della sua battaglia con i pubblici ministeri che l'hanno più volte portato
a processo.
Poiché a piangere (metaforicamente, s'intende) è l'uomo che
da 17 anni guida il centrodestra e che è diventato la figura (o, se si
vuole, il fattore) perno del bipolarismo italiano, i leader dell'opposizione
ridono e sorridono. Ma la loro soddisfazione e il loro ottimismo sono più
di facciata che di sostanza. Il Pd, pur essendo la principale forza di
alternativa, si ritrova con un "ruolo scudiero" proprio nelle due piazze
simbolo di quest'elezione – Milano e Napoli – ed è rimasto lontano dai
massimi storici di consenso giusto quanto basta perché si sia fatto spazio
per l'insediarsi (diseguale tra nord e sud, ma a tratti prorompente) di
proposte alternative più radicali della sua.
L'elenco va dagli alleati-competitori dell'Idv (con Napoli fiore all'occhiello),
alla nuova sinistra vendoliana (Milano per trofeo), dalla storica sinistra
antagonista e neocomunista (qua e là rediviva) ai non irregimentabili attirati
dalle Cinquestelle care a Beppe Grillo (Bologna e il centronord come luoghi
di presa). Il Nuovo polo di centro (Udc, Api) e destra (Fli) ha, invece,
rimesso in gioco i suoi (non straripanti, ma pesanti) consensi e ora –
a bocce ferme – è evidente come l'abbia fatto soprattutto da forza d'opposizione
e, dunque, "contro" il centrodestra di Berlusconi, pur non partecipando
quasi mai (eccezione eclatante Macerata) alle vittorie come decisivo partner
di governo.
C'è molta polemica, come si intuisce, nel quadro delineato
dagli elettori (e lo sottolinea anche l'ulteriore impennata delle astensioni
tra primo e secondo turno). Polemica con chi governa il Paese, in qualche
caso con chi aveva governato Comuni e Province, in tutti – a ben vedere
– con l'attuale assetto politico. C'è da augurarsi, ora che non ci sia
polemica da parte di nessuno con l'Italia che s'è espressa nel voto e con
le sue attese vere e urgenti, ma si mettano in campo ascolto serio e risposte
all'altezza. E questo su due piani.
Il primo è quello cittadino: nell'azione
dei nuovi amministratori sulle città "conquistate" non si sviluppi, cioè,
anche una spinta a farle teatro di sperimentazioni e forzature ideologiche
(su famiglia e welfare, prima di tutto) invece che luogo di pratiche amministrative
buone, perché utili ed esemplari (come a Parma, tanto per fare un esempio
non casuale). Il secondo piano è quello nazionale: ogni schieramento ha
molti e gravi motivi per far tesoro della pesante parola detta dai votanti
(e dagli astenuti). Il centrodestra, in maggioranza in Parlamento, non
cerchi specchi compiacenti per credersi ancora maggioranza nel Paese e,
secondo i liberi impegni assunti, lavori con urgenza alle riforme a lungo
promesse e non più rinviabili, a cominciare da quella fiscale. Le diverse
opposizioni, invece, fatta la festa, non si regalino un autoinganno: nulla
è già fatto nella costruzione di alternative all'oggi vincenti e largamente
convincenti. E nulla è scontato quanto a soggetti in campo e scelte di
schieramento. Chi dovesse pensare il contrario, avrebbe cominciato – pur
riuscendo, ora, a prevalere – a ripetere errori già fatti e a preparare
sconfitte "a orologeria" già vissute dai governi caduti nel 1998 e nel
2007. Se è davvero una fase nuova quella che si profila, lo capiremo anche
da qui.