Guerra in Ucraina. Nuova guerra globale, va evitato il cozzo tra Oriente e Occidente
Questo conflitto sembra non avere altro sbocco che l’annientamento di Putin o una qualche annessione dei territori russofoni. Ma il rischio è che questa radicalità dei fini susciti una radicalità dei mezzi
La guerra che da otto mesi si conduce in Ucraina deve essere qualificata come Terza guerra mondiale o come Nuova guerra globale? In senso largo potrebbe, senza troppe difficoltà, essere qualificata come mondiale. Essa, infatti, a un quadro delle operazioni belliche limitato a un solo Paese aggiunge un confronto militare e politico che vede l’intero Occidente contrapporsi a una potenza “euroasiatica”, la Russia, che ambisce a rappresentare, almeno militarmente, l’altra parte del mondo. Tuttavia la specificità dell’attuale conflitto è evidente: esso si svolge in un contesto internazionale completamente diverso e sembra esibire ragioni non sovrapponibili alle dinamiche del passato. Per questo può aver senso parlare di nuova “guerra globale”. Farlo serve ad accresce la nostra comprensione, solo se si prova a coniugare questa guerra con le categorie della globalizzazione e le sue dinamiche: non con la qualità nuova dei mezzi impiegati (peso di tecnologie e propaganda), ma con le ragioni e i fini propri dell’epoca attuale.
Tutti ripetono che la globalizzazione si è inceppata o sembra entrata in uno sviluppo contraddittorio: sglobalizzazione e riglobalizzazione. Ma c’è una dimensione che, tuttavia, permane e che sembra innegabile, quella di una interdipendenza, che così non c’era mai stata, tra le economie e le politiche degli Stati nazionali. Nonostante il tempo trascorso, i paradigmi eminenti della globalizzazione, o meglio delle sue dinamiche geopolitiche, rimangono, per molti versi, ancora quelli indagati da Fukuyama e Huntington: da un lato, l’omologazione planetaria della tecnica e del mercato e, dall’altro, lo “scontro di civiltà”. Con queste categorie la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina e l’intervento dell’Occidente andrebbero letti, rispettivamente, come la retriva resistenza di una sacca di mondo arcaico e alieno al cosmopolitismo mercatista e le inarrestabili pulsioni espansive della tecnica e del mercato oppure come il confronto, nel cuore dell’Europa, tra la civiltà confessionale e autoritaria dell’Oriente e la civiltà secolare e democratica dell’Occidente.
È vero che la “crociata” predicata da Kirill e la tradizione zarista evocata da Putin, da un lato, e la retorica-enfasi dei valori occidentali, dall’altro, potrebbero sostenere queste visioni. Ma è anche vero che la Russia, pur nella relativa modestia dei suoi apparati industriali, è già parte dell’economia globale e che i valori occidentali non sono del tutto disgiunti dal controllo geopolitico del mondo e delle sue risorse. Dunque, la Russia non si può dire estranea-esterna alla globalizzazione e l’Occidente non è esclusivamente un altro mondo. E d’altronde, è stato convincentemente spiegato che quelle di Fukuyama e Huntington sono due mezze-verità, che, in modo un po’ diverso, appaiono entrambe centrate sulla medesima dicotomia di “vecchio” e “nuovo”, mentre le fenomenologie che accadono nello spazio globale vanno comprese ormai come fenomenologie della stessa globalizzazione. Questo fa pensare che occorra considerare le dinamiche di questa guerra a partire da un’idea di globalizzazione un po’ più complicata. Un approccio diverso è quello che muove dalla differenza semantica tra mundus e globus (per tutti Giacomo Marramao), che la distinzione tra mondiale e globale necessariamente implica.
Mundus evoca uno spazio ancora aperto e la storia della sua conquista. Globus, al contrario, evoca la finitezza di una terra ormai ridotta a sfera e la sua ormai avvenuta appropriazione, uno spazio unico e liscio. Dunque, il mundus come dimensione dell’espansività e il globus , invece, come dimensione della compiutezza, un unicum abitato da tutti. E questo innesca due opposti problemi tra loro paradossalmente connessi. Il primo problema è quello hobbesiano dell’ordine, e cioè dell’inevitabile passaggio dall’ordine multipolare dei vecchi Stati sovrani a un ordine, che, pur riferendosi ancora a una realtà multicentrica, deve strutturare uno spazio unico e, perciò, ambisce a essere unipolare. Il secondo problema è quello opposto che nasce dal paradosso dell’omologazione e unificazione forzose, che provengono da questa spinta all’ordine unipolare, e della differenziazione culturale- identitaria che tale processo tuttavia produce. L’unificazione, è stato detto, produce essa stessa differenza. Ne segue la definitiva rottura del modello westfaliano (popolo, territorio e sovranità) e, per un altro verso, la messa al tappeto della logica regolativa che gli era propria, quella racchiusa nel vecchio diritto internazionale fondato sul rispetto dei confini territoriali e sul calcolo di convenienze e interessi del consesso degli Stati sovrani. E si modifica la natura dei conflitti che si producono nello spazio globale: essi diventano conflitti culturalidentitari che non conoscono più confini territoriali ed esorbitano dal calcolo delle convenienze.
È vero che anche le guerre di prima si ammantavano di motivazioni culturali (il militarismo autoritario degli Imperi centrali contro le libertà dell’Intesa o le dittature nazi-fasciste contro le democrazie degli Alleati), ma è altrettanto vero che anche dietro la guerra di oggi si muovono interessi economici relativi al controllo delle fonti di energia e delle materie prime e, più in generale, del mercato mondiale. C’è perciò una differenza fondamentale: culture e interessi si danno ora in uno spazio unico, in uno spazio senza confini e che i conflitti, che in questo spazio “sconfinato” insorgono, assumono, di conseguenza, caratteri simili a quelli delle “guerre civili”. E questo mette fuori campo l’arsenale tradizionale degli Stati-nazione che era, invece, strutturato per fronteggiare conflitti ove dominanti erano invece gli interessi. Il passaggio dalla modernità-nazione alla modernità-globo, insedia, dunque, al posto della dominanza del conflitto di interessi la dominanza del conflitto di valori, e perciò insedia, al posto della dominanza della logica strategica agita dall’interesse e dalla convenienza, la dominanza della logica identitaria segnata dall’intransigenza. Così avviene che nel nuovo spazio globale prendono a confrontarsi e scontrarsi una strategia di contenimento e dissoluzione volta a incapsulare e incistare le identità e scioglierle con il solvente del libero commercio e l’abito uniformante del consumo e una strategia di sconfinamento intesa a estendere l’identità fin dove giunge l’area della sua propria cultura. Sembra quasi che, con la globalizzazione, la storia abbia preso a percorrere gli itinerari preconizzati da Karl Schmitt. Il diritto internazionale, che veniva dal compromesso tra lo ius publicum europeum (centrato sui confini e le sovranità) e la logica (sconfinata) del mare liberum, che aveva retto il mondo fino alla caduta del muro di Berlino, entra in crisi. Prevale la logica del mare liberum, della libertà di appropriazione, affrancata, però, dal vecchio obbiettivo coloniale, sconfinata e dematerializzata. Sconfinata, perché trapassa ormai i confini terrestri e si riferisce al pianeta come a un unicum. Dematerializzata, perché cessa di avere di mira i territori d’oltremare e si rivolge al dominio del commercio (ovunque avvenga) e delle economie (ovunque si trovino). La logica del mare liberum diviene così, a differenza di prima, una logica assoluta, che non ammette altro da sé e che, perciò, si concepisce come destino del mondo, come nuovo e unico “sacro” di tutta l’umanità.
E tuttavia il radicamento terrestre che reggeva il vecchio diritto internazionale, annichilito dalla globalizzazione, ritorna senza i limiti di prima, senza i suoi confini terrestri, il nomos della terra, che prima lo contenevano, ritorna come culturaidentità e diviene esso stesso sconfinato. Alla guerra “legale” (tra pari sovrani nei loro confini), che il diritto internazionale del dopo-guerra aveva cercato di insediare, si sostituisce il iustum bellum, ove i contendenti si concepiscono come katéchon, come potere rivolto a fronteggiare il male (rispettivamente, dell’attentato all’ordine unipolare della globalizzazione, all’idolo “liberale” del pianeta, e dell’uniformazione del mondo che cancella le differenze). Così il posto dell’hostes , che è pari e con cui si tratta, si insedia l’inimicus , che è il male assoluto, la mente criminale da annientare, con cui perciò non si può trattare. Dimodoché il conflitto si muta in guerra senza scampo del bene contro il male.
La guerra ucraina sottende, per l’appunto, questa mutazione e le due strategie che essa porta con sé: la strategia della Nato intesa al contenimento della spinta identitaria della Russia in vista del suo dissolvimento e la strategia della Russia volta allo sconfinamento dell’identità che essa ritiene di impersonare fino a inglobare l’intera area della sua cultura. Due strategie che – si badi – erano già all’opera ben prima che scoppiasse la guerra di oggi: da un lato, il contenimento promosso con l’espansione ad est della Nato e, dall’altro, il riscatto della nazione russa, della sua identità storica dalla svendita fattane da Boris Eltsin, sulla quale si era costruito il consenso e il successo di Putin e che già recava in sé tutte le premesse dello sconfinamento. È in questo modo diverso che la qualificazione di “ globale” fa leggere la guerra che si sta conducendo sul suolo dell’Ucraina. Questa guerra appare figlia legittima della globalizzazione, del paradosso della glocalizzazione (e cioè della produzione globale di “località” identitarie) che le è proprio e dei conflitti identitari che essa stessa produce.
Questo rende verosimile che questa guerra non possa avere altro sbocco che o l’annientamento di Putin o una qualche annessione dei territori russofoni dell’Ucraina e che questa radicalità dei fini susciti il rischio della radicalità dei mezzi: l’incommensurabile radicale ed esclusivo che entra in modo devastante nella storia del mondo fino a prendere il nome di nucleare. Ma questo apre anche un altro scenario non meno preoccupante, quello che quel che sta avvenendo ora possa condurre all’insorgenza di un nuovo conflitto identitario. L’Ucraina può essere solo l’inizio e quel che verrà dopo sarà ancora più allarmante: molte cose fanno pensare che dopo la Russia venga la “diversità” della Cina. Pechino è stata, certamente, la maggior beneficiaria della globalizzazione, e questo spiega la sua posizione sull’attuale conflitto ucraino. Ma la sua è stata una globalizzazione per molti versi a senso unico: ha aperto i suoi mercati ma ha preservato strenuamente la sua cultura e il controllo politico dell’economia che di essa fa parte. Essa, perciò, costituisce – piaccia o no – una grande anomalia identitaria entro il dispositivo generale della globalizzazione. Un’anomalia su cui l’Occidente si era fin qui diviso (tra l’allettamento europeo ai commerci e la preoccupazione americana per un sorpasso economico e tecnologico), ma che la guerra ucraina ha ricompattato. L a Cina, però, non potrà mai accettare che una strategia di contenimento inglobi una Russia convertita all’Occidente e giunga ad accerchiarla a nord lungo un confine di seimila chilometri. Mentre, d’altra parte, una Russia sconfitta non costituirà più una minaccia. Il che fa pensare che la “passiva amicizia” di oggi si possa mutare, prima o poi, in una vera alleanza tesa a saldare il residuo potere nucleare russo e soprattutto il suo controllo di buona parte delle riserve mondiali di energia e materie prime con la potenza tecno-economica cinese. Con le tensioni che si possono immaginare, e rispetto alle quali la rivendicazione di Pechino su Taiwan potrà costituire solo un pretesto. Bisogna sperare e lavorare perché questo scenario venga scongiurato da una pace come quella che oggi predica in solitudine papa Francesco, cioè da un’altra immagine e regola del mondo e delle relazioni tra gli uomini e le donne che lo abitano.
Giurista, Università di Catania