Opinioni

Botta e risposta. Notre-Dame e l'«utopia» di Assisi. Ricostruire: in 2 anni si può

Gianfranco Marcelli venerdì 21 giugno 2019

Gentile direttore, scrivo a proposito dell’interessante rubrica “Euro frammenti” curata da Gianfranco Marcelli e in particolare dell’articolo pubblicato il 18 giugno 2019 sotto al titolo «Grandi Cattedrali e piccoli giochi di potere». Marcelli, tra l’altro, fa riferimento ai tempi di ricostruzione della Basilica di Notre-Dame, promessi a caldo, nel termine di cinque anni, e annota: «Macron e i suoi consiglieri sanno che in cinque anni è impensabile rifare l’edificio così com’era». Su questo punto, mi permetto di non essere d’accordo con il suo commentatore. Infatti, come ho avuto modo di indicare in una mia lettera indirizzata allo stesso presidente Macron, ritengo invece tale termine anche migliorabile. Ciò è frutto dell’esperienza condotta dal nostro Gruppo di Progettisti, sulla Basilica Papale di San Francesco in Assisi, gravemente dissestata dal crollo di parte delle sue volte – preziosamente affrescate – a causa del terremoto del 26 settembre 1997. L’intervento, ad altissima complessità, e al quale i media hanno dato grande visibilità, si è concluso in due soli anni. Grato se vorrà pubblicare questa mia testimonianza, la prego di gradire i miei migliori saluti

Paolo Rocchi Architetto professore ordinario f.r. di Consolidamento degli Edifici Storici La Sapienza – Università di Roma


Anzitutto grazie per l’attenzione, illustre e caro professore. E anche per il ricordo dello straordinario lavoro compiuto ad Assisi a partire da quel drammatico 26 settembre 1997, quando la terra tremò fra le Marche e l’Umbria provocando, oltre a morte e distruzione in un’area vastissima del nostro Centro-Italia, anche il crollo di parte degli affreschi e della volta della Basilica superiore di San Francesco. In quella circostanza, come lei rammenterà molto meglio di me, ci fu uno straordinario concorso di professionalità, di ingegni e soprattutto di dedizione, per dare vita a quello che Antonio Paolucci definì «il cantiere dell’utopia », perché fu varato con l’obiettivo, da molti ritenuto irrealistico, di riaprire la chiesa entro il Grande Giubileo del 2000. Utopia realizzata, invece, grazie a veri e propri “miracoli”, come la raccolta dei 300mila frammenti di soffitto e pareti, 220mila dei quali ricollocati esattamente al loro posto. A pensarci bene, quando il 29 novembre prossimo cadrà il ventesimo anniversario della riapertura, sarebbe il caso di dar vita a una adeguata “memoria” di quell’impresa. Dovuta certo – come lei giustamente sottolinea – al concerto di capacità progettuali e realizzative messe assieme e al ricorso a procedure straordinarie, con la nomina di un Commissario con pieni poteri, ma frutto anche di uno spirito unitario e di uno sforzo corale di cui in Italia siamo ben capaci, ma che purtroppo non si riscontrano spesso. Non ritenendomi nemmeno lontanamente in grado di obiettare al suo parere sul piano scientifico e tecnico, mi limito a esprimere solo qualche perplessità, da profano, sulla paragonabilità tra i danni subito da San Francesco (non sul terreno artistico, s’intende: Giotto si rivolterebbe nella tomba!) e quelli inferti alle strutture di Notre Dame dal pauroso incendio del 15 aprile. Tuttavia prendo atto rispettosamente della sua valutazione e a questo punto posso solo augurarmi che anche Emmanuel Macron la tenga in seria considerazione. Qui però mi consenta di esprimere il vero dubbio di fondo che nutro nei confronti del presidente francese. Peccherò forse di “processo alle intenzioni”, ma temo che a spingerlo nell’impresa sia soprattutto l’ambizione personale. E non invece l’amore per un monumento che, come ha ricordato qualche giorno fa l’arcivescovo di Parigi Michel Aupetit durante la prima Messa dopo il disastro, è per prima cosa «una cattedrale viva», un luogo «costruito per celebrare l’Eucarestia», e pertanto «segno della nostra Francia, ma anche delle nostre radici cristiane». Le ricambio, anche a nome del direttore, i più cordiali saluti.