I dati negativi e le continue riforme. Non servono vecchie tutele per nuovi lavori
Il dibattito sul lavoro in Italia, sempre acceso e animato, si è concentrato nelle ultime settimane sulle leggi che lo regolano. Non una novità se guardiamo alla natura degli interventi normativi degli ultimi dieci anni, quasi uno per anno. La volontà di riformare il mercato del lavoro italiano a partire da modifiche - spesso fatte col cacciavite - al diritto del lavoro accompagna da tempo le scelte del Governo. Eppure, se guardiamo all’impatto reale di questo riforme che si susseguono nelle Gazzette Ufficiali, ci accorgiamo che le conseguenze non sono sempre quelle attese.
Lo confermano da ultimo i dati diffusi ieri dall’Istat che certificano un nuovo calo di quasi 50mila occupati, tutti permanenti. Numeri che testimoniano come le condizioni del mercato del lavoro italiano siano ancora preoccupanti. La tentazione del riduzionismo giuridico si trova però a scontrarsi in primo luogo con le complesse dinamiche dei mercati internazionali, sempre più interconnessi tra loro e caratterizzati da cicli brevi e imprevedibili, e i dati sono solo conseguenze di tutto questo.
Difficile parlare di soluzioni alla precarietà se non si interviene quindi nel mercato del lavoro e nella sua gestione, a meno che si voglia muoversi in modo anacronistico forzando le imprese a cicli economici dalle durate oggi irrealistiche.
Tutto questo dovrebbe condurre, almeno in parte, a cambiare il punto di vista, concentrandosi non più solo sulle regole, ma sul governo dei mercati del lavoro. Infatti molte delle criticità principali del lavoro in Italia nascono dall’assenza di un vero e proprio sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Del tema se ne sta meritevolmente occupando il Senato, con una indagine conoscitiva sul funzionamento dei servizi al lavoro. Il punto, tuttavia, è che ancora una volta si pensa al collocamento come funzione pubblica anziché come servizio che, in quanto tale, può essere reso anche da operatori privati nel rispetto di determinati standard qualitativi e quantitativi di funzionamento. Già questa prima constatazione, se comparata alla realtà italiana, può far comprendere l’arretratezza del nostro sistema.
Da un lato le difficoltà di funzionamento e le scarse performance dei 501 Centri per l’impiego presenti sul territorio nazionale. Dall’altro un preoccupante scenario relativamente agli attori privati, con la presenza di sole 107 agenzie di somministrazione (rispetto alle migliaia della maggioranza dei Paesi europei e degli Usa) e soprattutto di sole 9 realtà abilitate all’attività di intermediazione in regime ordinario, contro le oltre 2.500 a regime particolare.
Per non parlare degli oltre 800 soggetti abilitati alla ricerca e selezione. Numeri che sono indice, se non della scarsa qualità dei servizi per il lavoro in Italia, quantomeno dell’assenza di un sistema coordinato e che pongono non pochi dubbi sulle attività di molti attori, che spesso svolgono attività per le quali non sono abilitati. Soprattutto in uno scenario nel quale le trasformazioni del lavoro hanno resa obsoleta l’idea del collocamento da posto a posto e richiedono interventi attivi personalizzati e altamente qualificati. Un ulteriore elemento di criticità è legato alle profonde differenze territoriali che caratterizzano il nostro Paese sia dal punto di vista dei settori produttivi sia delle strutture stesse dei diversi ecosistemi territoriali.
E un elemento centrale in questi ecosistemi, soprattutto in un’economia della conoscenza, è proprio l’efficienza nell’incontro tra domanda e offerta. Tutto ciò rende particolarmente complessa l’attuazione di un sistema di coordinamento nazionale come quello immaginato nel Jobs Act e, a oggi, non ancora implementato, complice anche l’esito del referendum costituzionale. Quanto detto non significa che le norme non possano avere una funzione importante nella garanzia delle tutele dei lavoratori. Ciò su cui occorrerebbe ragionare seriamente, e senza ideologia, è quali siano queste tutele all’interno dei nuovi mercati del lavoro. Anche solo spostare il punto di osservazione e quindi l’oggetto dell’analisi e del dibattito sarebbe un passo importante.