Crimini Cpi. Non tutto è genocidio, ma l'Italia ancora non vede tante atrocità
Ci sono parole importanti che andrebbero usate con parsimonia per non sciuparle. «Genocidio» per esempio. L’espressione è tornata nel dibattito pubblico in un’accezione poco nota, che merita approfondimento. È successo quando, a fine luglio, Francesco nel suo coraggioso «pellegrinaggio penitenziale» in Canada ha chiesto perdono per le responsabilità che anche la Chiesa cattolica ha avuto nelle politiche di distruzione culturale e assimilazione forzata delle popolazioni indigene. E poi quando al principio di settembre l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha accertato che gli uiguri, minoranza musulmana di lingua turcomanna che abita la provincia cinese dello Xinjiang, sarebbero vittime di «gravi violazioni di diritti umani» e di potenziali «crimini contro l’umanità». Non pochi governi, parlamenti e attivisti accusano di genocidio Pechino, che cita macchinazioni anticinesi e legittime politiche contro il terrorismo e l’estremismo.
La corretta estensione del lemma «genocidio» è controversa. La categoria giuridica, risalente alla Convenzione del 1948 è angusta, figlia dei tempi e del compromesso politico. Alcune interpretazioni, che riducono la parola a sinonimo di eccidio o crimine di massa, finiscono paradossalmente con lo sminuirne gravità e specificità. Se tutto è genocidio, niente è genocidio. In geopolitica, l’espressione serve da stigma contro il nemico o per giustificare l’uso della forza armata. Cos’è dunque genocidio?
Rafael Lemkin, inventore del neologismo, vi arrivò riflettendo sul massacro degli armeni e sulla Shoah che egli, da ebreo polacco, aveva sperimentato sulla propria stessa pelle sfuggendo a stento allo sterminio che non risparmiò cinquanta suoi familiari. Articolò così il concetto intorno all’intento di annichilire gruppi nazionali, etnici, religiosi con atti di distruzione fisica, biologica, politica e culturale.
La mala pianta del genocidio germoglia dal seme immondo del razzismo. «Non tutto ciò che ha sembianze umane è umano»: è lo slogan che ricorre nel discorso nazista per escludere dall’umanità non solo chi non appartiene alla razza 'buona' ma anche chi dentro quest’ultima è difettoso come un prodotto mal riuscito, dunque «indegno di vivere». Gli appartenenti al gruppo perseguitato, per ciò stesso, non meritano di esistere; devono essere soppressi fisicamente o assimilati forzatamente ai dominatori.
È questo il formidabile messaggio nascosto nella lezione di umiltà e umanità che papa Francesco consegna alla storia. Gli indigeni canadesi come gli aborigeni australiani e gli uiguri, se si confermassero i sospetti, sono vittime di genocidi culturali. Ai perseguitati viene sì risparmiata la vita, ma al prezzo della distintiva coscienza collettiva del gruppo il quale cessa così di esistere, divorato dai dominatori e infine ingoiato dall’oblio. Una perdita, una sconfitta per l’intera umanità.
Un recentissimo progetto di Codice italiano dei crimini internazionali segna due evoluzioni del pensiero contemporaneo, risposte al triste degrado morale che attraversa il nostro tempo. Introduce il genocidio culturale, inteso come sistematica sottoposizione delle minoranze a deportazioni, detenzioni, misure di sorveglianza di massa, indottrinamenti forzati e discriminazioni al fine di rimuovere i caratteri religiosi, linguistici e culturali del gruppo. E comprende fra gli atti genocidari le offese gravi e sistematiche alla libertà e dignità sessuale: è la guerra più incivile, combattuta sul corpo e l’anima dei bambini e delle donne.
Il Codice è atteso da lungo tempo. L’Italia, instancabile anima della Corte penale internazionale, non ha però mai attuato lo Statuto sottoscritto a Roma ventiquattro anni fa. In Italia – è difficile anche da credersi – non è proibita la guerra d’aggressione, non sono vietati molti crimini di guerra e tutti i crimini contro l’umanità: stermini, deportazioni, torture, stupri, persecuzioni. Procure e forze di polizia italiane non possono cooperare alle indagini della Corte penale internazionale e di altri Stati sulle atrocità commesse nei teatri di conflitto. Non si possono nemmeno ricevere le denunce dei rifugiati vittime e testimoni delle atrocità criminali. Le prove così si disperdono e le prospettive di giustizia si allontanano.
Davanti al calvario delle moltitudini che in ogni angolo del pianeta vivono i tormenti della guerra, del terrore e delle persecuzioni, gli italiani non sono disarmati: hanno la forza della compassione che Francesco chiama «la lente del cuore». Lo Stato invece è disarmato. L’auspicio proprio adesso, nel momento più buio, mentre sta per aprirsi una nuova stagione politica in seguito al voto generale del 25 settembre, i tempi della politica e della giustizia possano finalmente allinearsi nel solco di quel lunghissimo impegno internazionale per la giustizia, la pace e i diritti che è il nostro più prezioso capitale geopolitico, un potere saldo e gentile che unisce gli italiani.
Giudice della Corte Penale Internazionale