Non senza le opere. Dopo il Giubileo, un allarme da capire
Si può far censimento dello cose dello spirito? Il Giubileo della Misericordia, che si è appena concluso, appartiene a questo genere di cose, e Dio solo sa le azioni della Grazia e il suo nascosto mistero. Nondimeno qualche riflessione è possibile sui frutti visibili, sulla risposta della gente e del mondo all’invito, su qualche misurabile ricaduta sociale, per così dire, se s’intende il suo dono di grazia intrecciato a uno sprone di conversione. Il giubileo è <+CORSIVOIDEE>in primis<+TONDOIDEE> la porta di misericordia invocata e ricevuta; ma chiede d’esser finestra di misericordia riversata; la gioia d’aver ricevuto misericordia, la beatitudine d’essere misericordiosi.
I bilanci di ciò che accade nel cuore degli uomini non sono possibili; l’Anno Santo non è un "evento", come si usa dire, da pesarsi alla stregua di un’Expo, quanti numeri, flussi, allestimenti, resoconti. No, quel che può avvicinarsi al mistero può essere semmai, dall’esterno, la ricerca e il vaglio di quei mutamenti di pensiero, e di condotta concreta, misurabili in un’inchiesta sociologica, a disegnare la novità germogliata anche sul piano civile dal seme di quella grande parola "misericordia" che per un anno intero è risuonata fuori e dentro di noi.
Ci ha provato il Censis, pubblicando ieri una ricerca su "Gli italiani e la misericordia" che affronta i quesiti essenziali su ciò che l’Anno Santo ha prodotto in seno alla società, su quella scintilla divenuta fiamma, sprizzata dal bisogno di essere perdonati e di perdonare, di capire se i rapporti "umani" sono regolati dal tornaconto o dal soccorso generoso.
Il pensiero del perdono ha fatto breccia; i dati raccolti indicano che molti, moltissimi, l’hanno invocato, celebrato, vissuto. Una presa di coscienza della propria fragilità, delle proprie ingiustizie; chiamando com’è giusto "peccato" lo sbaglio cattivo, e "perdono" l’abbraccio di grazia che rifà nuovo il cuore e riprogramma la vita. Un bisogno che si è nutrito dentro la teologia della tenerezza, che attrae verso il ritorno scovando anche chi è disperato; e invoglia a riversare la stessa ventura di pacificazione anche nei rapporti con gli altri (con i familiari, prima di tutto). Il desiderio che anche nelle vicende quotidiane si riproduca il miracolo di cicatrizzare le ferite, anziché perpetuare i conflitti.
Meno felice il quadro della misericordia praticata. Il soccorso ai bisogni degli altri, degli infelici, degli esclusi, non sembra raggiungere numeri grandi di coinvolgimento emotivo. Certo, bisogna tener presente che la ricerca del Censis raccoglie interviste, dichiarazioni, opinioni, confidenze, cioè fonti diverse da una ricognizione fisica (impossibile) dei gesti di carità; e poi si sa che il bene non fa rumore.
E spesso è la povera gente, rammenta il Manzoni, che aiuta i poveri. Ma la domanda su 'quanta carica dà alla vita quotidiana' il pensiero di aiutare chi è in difficoltà ha avuto risposte più basse rispetto a tre anni fa; anche se un buon quarto degli italiani continua a mettere tale aiuto fra le tre cose più importanti nella scala dei valori. Un quadro dunque che appare ancora trepido, increspato da ombre; forse la crisi economica, forse la scelta insoluta di stringersi addosso il proprio insidiato benessere incurante dell’altrui povertà, rispetto al soccorso dei miseri il cui numero ingigantisce.
A volte stringendo il raggio della generosità ai dintorni più vicini, alla famiglia, a chi è 'proprio'. Chi non è proprio, non solo è lontano, diverso, sconosciuto: a molti, forse, fa più paura che pietà anche quando bussa al nostro lido per fuggire la morte. C’è un quadro del Caravaggio, a Napoli, sulle 'opere di misericordia': in un’unica scena c’è tutto, la fame la sete la nudità l’addiaccio la malattia il carcere la morte; è la condizione umana, che ha lo sguardo pietoso del cielo perché ha pietà di se stessa, quando l’uno ridà all’altro la dignità, la misericordia d’un gesto d’amore. Il Giubileo permanente.