La Colombia svolta e si affida a Petro. Non più sangue ma consensi
La vittoria di Gustavo Petro non si è consumata nei confronti del rivale, il populista Rodolfo Hernández. Per dare l’assalto al cielo e conquistare la presidenza, Petro ha dovuto battere se stesso. O, meglio, quanto egli rappresentava agli occhi di una delle due metà in cui è spaccata la società colombiana. La 'petrofobia' è stata, nella campagna attuale come nelle due precedenti, l’avversario più temibile per l’ex sindaco da Bogotà, con dodici anni di militanza nelle file della guerriglia del M-19. Il suo superamento è il risultato di due fattori. Il primo, imprescindibile, è il processo di pace, culminato nell’accordo del 24 novembre 2016. Per oltre mezzo secolo, la guerra tra governo e Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) ha tenuto in ostaggio la politica in Colombia. Qualunque forma di contestazione – per quanto disarmata – dell’establishment e dell’assetto economico è stata sistematicamente equiparata al sostegno alla guerriglia.
Solo lo scioglimento di quest’ultima ha liberato il dibattito pubblico dalla camicia di forza bellica. È stato necessario un tempo di riassesto perché la competizione elettorale prendesse le misure del nuovo perimetro, più ampio.
L’assenza delle Farc in armi e la loro presenza nell’Aula parlamentare – come previsto dal trattato di pace – era uno choc troppo forte per non generare, nel breve periodo, vistosi contraccolpi.
L’esito del voto del 2018 ne è stato il prodotto. L’accordo del 2016 – implementato poco e di malavoglia dall’attuale governo –, però, ha mutato il Paese. La sua forza s’è insinuata nelle fibre più profonde della nazione, aprendo orizzonti inediti. La vittoria di Petro coincide con la sonora sconfitta del partito delle Farc, la cui rappresentanza parlamentare è scomparsa.
La nuova Colombia che la pace sta generando, certo, ha in comune con la vecchia i nodi storici della diseguaglianza, acuita ora dalla pandemia, della corruzione e, soprattutto, della violenza. Intere porzioni di territorio sono prigioniere di bande criminali, eredi dei paramilitari d’ultradestra come delle Farc. Il patto dell’Avana, tuttavia, offre almeno al governo un filo rosso per uscire dal labirinto. Se la pace è stata la condizione necessaria della vittoria di Petro, questa, da sola, non sarebbe stata sufficiente. Ad arginare la petrofobia ha contribuito lo spostamento del leader della sinistra verso il centro. Un movimento cominciato all’indomani del primo turno. E culminato nel discorso della vittoria: «Non si tratta di un cambiamento per fomentare vendette né per creare più odio». I prossimi mesi diranno se si tratta di dichiarazioni di facciata o se si tratta di un movimento reale.
Se il Petro presidente ha sconfitto anche il Petro intransigente, decisionista e, spesso, dogmatico degli ultimi anni. La scelta di Francia Márquez, ambientalista riconosciuta a livello internazionale, come numero due è un segnale positivo della volontà di distanziarsi dai dinosauri della sinistra latinoamericana, dal venezuelano Maduro al messicano López Obrador. E di avvicinarsi alla nuova ondata progressista che si abbatte sul Continente. Una forza che ha il volto giovane del cileno Gabriel Boric o lo stile moderato del boliviano Luis Arce. E che, da ottobre, potrebbe avere quello anziano ma ancora combattivo di Luiz Inácio Lula da Silva. Al di là delle ombre e dello strizzare l’occhio a un certo oltranzismo liberatorio, il nuovo corso geopolitico pone in agenda alcuni temi chiave.
In primis la questione ecologica e l’emancipazione della regione dalla gabbia dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali da vendere nel mercato globali. Una differenza netta rispetto alle sinistre d’inizio anni Duemila – in particolare gli irriducibili Hugo Chávez ed Evo Morales – i cui programmi sociali sono stati finanziati dagli alti prezzi internazionali delle materie prime. La temperie attuale offre anche un’importante opportunità agli Usa di Joe Biden di dialogare con il 'fronte Sud' e di colmare il grande vuoto trumpiano. Non solo per opportunismo strategico, come nel caso di Caracas il cui petrolio, ora, « non olet » più. Bensì perché si possono trovare dei temi di interesse comune, come la riforma dell’economia nella locomotiva cilena o l’applicazione, da parte di Bogotà, di quell’accordo di pace su cui proprio Washington aveva scommesso tanto. La sfida di combinare crescita inclusiva e cura del pianeta è ambiziosa. Non solo per l’America Latina. Se riuscirà quantomeno a compiere dei passi significativi verso il traguardo, il Continente potrebbe diventare laboratorio di sperimentazione per il mondo.