Non per ottimismo ma per vera speranza. Le tante parole d'augurio e ciò che ha valore
Le montagne di auguri che ci siamo scambiati sono aria fritta? Pura retorica? Belle parole ma del tutto impotenti dinanzi al destino di ciascuno? Gli auguri di belle cose che hanno girato ovunque replicati, che ci han raggiunto in tutti i modi, a voce, in rete, sui social, e persino nelle pubblicità sono parole in fondo in fondo inutili, prive di potere? Questo mi domandavo, nei giorni scorsi, vedendo con quanta facilità e anche con quale spiegamento di mezzi di comunicazione ci circondavano questi "auguri".
La parola "augurio" – antichissima – viene dall’arte divinatoria dei popoli italici preromani. Indicava la capacità di profetizzare, di vedere qualcosa nel futuro mediante la lettura di segni: nel fuoco, nelle foglie, nei voli degli uccelli. Ora invece questi auguri spesso veloci, carini per carità, ma, tranne rari casi, meditati il giusto, non hanno più tale pretesa divinatoria, non sono profezia. Bensì una sorta di ottimismo dispensato a basso costo. Eppure ognuno di noi, soprattutto guardando certi occhi o scrivendo a certe persone voleva davvero dire qualcosa che vale, profetizzare, vedere solo qualcosa di buono nel futuro di quel ragazzino, di quella ragazzina, di quel malato, di quella persona cara da tanto tempo. Auguri intensi davvero, non semplice ottimismo, ma quasi violentissima speranza: che i tuoi giorni siano pieni di bene, che tu non soffra troppo, che tu non ti perda nel bosco degli anni, che la tua anima sia lieve.
Tra l’ottimismo e la speranza ci sono alcune differenze. Specialmente in un epoca di crisi è meglio averle chiare. Di fronte alle prove, infatti, l’ottimismo è come un bambino che vuol fare il grande, somiglia a quei piccoli uomini che in certe commedie si mettono a dare pugni a dei colossi grandi il triplo. La parole d’ordine dell’ottimista sono: "non mollare mai", oppure "pensa positivo", tutte cose giuste e utili in un certo senso e fino a un certo punto. Di fronte ai problemi essere ottimisti è più ragionevole, anche la più ardua delle ricerche scientifiche si muove con una ipotesi positiva a riguardo di una soluzione, cioè è ottimista. Ma la speranza è invece una bambina più folle e più scaltra. Non si mette a menar colpi e basta. Specie quando il nemico, il dolore o la crisi, insomma quando la disperazione si fa grande, non perde tempo in una boxe inutile. Mira a un bersaglio più grosso. Alla vittoria definitiva. Che non si realizza solo – vertice della speranza – oltre il tempo che conosciamo, ma già ora ê il sabotaggio della disperazione.
Infatti, la speranza, bambina meravigliosa, ha gli occhi fissi su un bene che nessun dolore e nessuna prova possono rubare. La speranza punta sulla verità più profonda dell’essere umano. Non punta, come il piccolo pugnace ottimismo solo sulle proprie forze per evitare il peggio. Ma sulla verità, l’unica cosa che rende liberi e non solo dai tiranni della storia, bensì dal peggior tiranno che vuol conquistare il nostro cuore: la disperazione. Lei, bambina, fa leva sul tesoro e sulla vera energia che nessuno può rubare. Così l’augurio riguarda la certezza che – qualunque prova si attraversi – tale tesoro può splendere in un punto del cuore: «Tu sei voluto dal profondo dei cieli, e dunque il tuo valore è infinito».
La speranza infatti è mossa dalla certezza, dall’aver visto, come un augure antico, i segni di quel bene, di quell’essere voluti. Che tali segni tu possa sempre vedere, dice l’augurio della speranza. Impegnandosi a non cessare di vederli, leggerli, mostrarli.