Una legge perfettamente umana. Non per la via più breve, ma sempre per la più bella
Il 19 ottobre è uscita una notizia apparentemente poco importante, che perciò non è stata commentata ed è scivolata via dalla nostra attenzione. È probabile che nessuno se la ricordi più. Eppure è una notizia che spiega i nostri comportamenti e le nostre abitudini, quando ci muoviamo per le nostre città. La notizia comunica i risultati dell’esame di 550mila spostamenti di persone che camminano per Boston e San Francisco, e dice che queste persone, per raggiungere una destinazione a piedi, non vanno per l’itinerario più corto. Seguono altri criteri. Più istintivi e spontanei. Il nostro cervello, dice la relazione, «'non è ottimizzato per calcolare il cosiddetto 'cammino minimo'». Mi son chiesto subito se la conclusione mi riguarda, e mi son risposto di sì. Io abito in una città fondata dai romani, che quindi ha le due strade principali che s’incontrano a croce, tutti le conoscono, e quelli che vengono qui se le imprimono nel cervello dopo mezz’ora: da quel momento, tutti gli altri luoghi se li indicano con riferimento a queste due strade, se devono incontrare un amico lo fanno convenire lì. Non importa se per andare lì fanno cento metri in più. Andare lì lo sentono comunque come un risparmio.
Di che cosa? Di cervello. La stessa cosa (ecco perché la notizia m’interessa) succede se ci trasferiamo dalla camminata alla parlata: anche quando parliamo, al telefono o direttamente tra di noi, col nostro discorso (su amicizia, famiglia, figli, e salute, viaggio,soldi…), passiamo vicino alle narrazioni che di quelle stesse esperienze han lasciato poeti e scrittori, che le hanno vissute in maniera per così dire esemplare, trasformandole così in calamite, che appena t’avvicini t’attraggono.
Forse non siamo più in grado di amare come amava Dante, con tanta naïveté, tanta innocenza, tanta castità, ma non possiamo attraversare il ginnasio e il liceo senza fare i conti con i 'sospiri' di Dante. Gli scrittori e i poeti non ci lasciano un’impronta astrattamente linguistica, ma concretamente morale. Come non riusciamo ad andare da un punto all’altro della nostra città per la via più breve, ma siamo deviati sulla via più bella, più attraente, così non possiamo più esprimere le nostre esperienze con parole dirette e brutali ma dobbiamo fare i conti con le parole memorabili che per quelle esperienze hanno usato Dante, Leopardi, Manzoni, Verga, eccetera.
Non potremmo esprimere l’attaccamento alla casa, e l’istinto a non venderla, meglio di come ha fatto Verga. Non potremmo esprimere il nostro 'andare in guerra' meglio di come ha fatto Svevo. A un certo punto, la guerra e noi c’incontriamo per strada, noi andiamo in là e lei viene in qua, e incontrandola noi cambiamo direzione. La guerra è uno sbandamento. Non potremmo onorare i morti meglio che parlandogli: «Silvia, rimembri ancora…? ». Non importa se Silvia è morta, la poesia è nata per parlare ai morti, è nata per essere un ponte dal di qua all’aldilà. Ho visto in un documentario una scimmia che teneva in braccio il suo scimmiotto morto da un giorno, continuando a soffiargli in faccia: quei soffi sono parole, e quelle parole sono poesia, una poesia pre-umana.
La notizia che la via più breve tra due piazze della città non è la più corta ma la più bella apre lo spazio all’arte. Non esistiamo per leggere soltanto i conti della spesa, ma anche e soprattutto la poesia.