Lettere. Non ogni depressione è patologica e c'è pure una tristezza che rigenera
Caro Avvenire,
esprimo il mio sollievo di profana per l’ottimo articolo di Eugenio Borgna su “Noi Famiglia&Vita” di dicembre, sull’uso improprio dell’abusatissimo termine “depressione”. Ricordo il detto di un medico, su non so che giornale anni fa, sul danno della tendenza odierna a medicalizzare tutti i problemi dell’uomo. Il professor Borgna sottolinea come non tutte le depressioni siano patologiche e bisognose di farmaci; tanto peggio, d’un suicidio assistito: questo il fulcro! Oltre alla normalità del dolore per lutti, malattie gravi, perdita di lavoro e altri eventi del genere, indicanti una sensibilità che per fortuna sussiste a dispetto del tanto pubblicizzato cinismo, oserei aggiungere il disagio generato da traumi o rimorsi per colpe vere (o sentite tali), cancellati dalla memoria cosciente, che lavorano sotto sotto. Preziosissima la lettera di una signora, apparsa tempo fa su “Avvenire”, in cui raccontava come un suo vago orientamento omosessuale si rivelò causato dall’abuso subìto nell’adolescenza da un medico, subito cancellato, ma poi riemerso dopo anni per una lettura che vi era casualmente associata. Un falso orientamento, ad onta di chi glielo imponeva come vero. Tutto per il materialismo che da un paio di secoli compenetra a gradi tutta una mentalità, prima della scienza, poi della cultura, infine del pensare di massa, che ha stravolto concetti e termini, mutando lo spirituale in psicologico, lo psicologico in psichiatrico... Non è forse quello che avviene in certe posizioni mediatiche imposte, con relativi eccessi, barattate come “scienza” e, ovvia conseguenza, come diritto legittimo? Ringrazio “Avvenire” che mantiene in tanto caos la via diritta, anche se “stretta”, come affermò un Tale di duemila anni fa.
Da molti anni ho il privilegio di incontrare il professor Borgna, psichiatra emerito e scrittore, in occasione della uscita dei suoi libri, per scriverne su queste pagine. Una delle cose che ho imparato da questo anziano, grande medico, sempre chino sul cuore dell’uomo fin dai tempi in cui viveva tutto il giorno accanto alle malate del reparto femminile dell’ospedale psichiatrico di Novara, è, per dirlo in estrema sintesi, la dignità della malinconia. Il discorso sottolineato dalla lettrice infatti è caro a Borgna: nel tempo di una psichiatria che sempre più tenderebbe a risolvere ogni disagio solo con gli psicofarmaci, spazzando via ogni ombra come un fastidio, il professore appartiene a una scuola che ancora osserva e ascolta il paziente in tutta la sua umanità e complessità. E spesso lo ho sentito affermare che non ogni forma di tristezza deve essere catalogata come “depressione” in senso patologico. Ci sono infinite ragioni per cui una persona può cadere in questo stato d’animo: dolori, lutti, perdite, e poi anche rimorso per cose fatte o mancate, per colpe vere o presunte; e, ancora, stagioni della vita. Il peso degli anni, il constatare come a un certo punto il tempo si faccia breve, la coscienza, chiara con la maturità, della propria limitatezza, naturalmente possono indurre sulla china della malinconia; ed è un passaggio pienamente umano, e forse perfino necessario, in quella lunga crescita che fino alla fine ci accompagna. C’è una tendenza di certa psichiatria a debellare ogni incupimento a colpi di Prozac, perché bisogna essere sempre efficienti, e “positivi”. Borgna nei suoi libri ci ricorda che siamo uomini e non macchine condannate alla efficienza e alla produttività, e che quella tristezza che sentiamo addosso a volte può essere la fonte di una rinascita, di un nuovo inizio. Mi ha insegnato, il professore, e gliene sono grata, che la malinconia può essere perfino la percezione che, pur magari avendo “tutto”, sempre qualcosa ci manca, dolorosamente, e che mai bastiamo a noi stessi da soli. Come scrisse Romano Guardini, talvolta «la malinconia è nostalgia dell’infinito». Quella indefinibile nostalgia, quasi di una patria conosciuta e lasciata; di un padre che ci ha lasciati andare, ma aspetta il nostro ritorno. Perché da cristiani certo, e ce lo ricorda spesso il Papa, siamo chiamati alla letizia, certi come siamo di Cristo e della sua Resurrezione. Ma è una battaglia costante e sfiancante, quella fra la fatica opaca di ogni giorno e la certezza della gioia futura. Così che ci tocca anche, certi giorni, portarci addosso questa grigia compagna, che non necessariamente è malattia, ma condizione umana; frammento di Croce, forse, da caricarci in spalla, continuando con fede a camminare.