editoriale. Non è un’utopia l’alternativa all’economia-dominio
Stiamo soffrendo tutti per carestie di comunione. Rischiamo di abituarci alla sua assenza, e così smettere di desiderarla. Le comunioni avvengono dentro comunità, ma non è necessariamente vero il contrario: possono esistere ed esistono comunità senza che tra le persone ci sia alcuna forma di comunione, dove i doni diventano obblighi, senza libertà e senza gratuità. Oggi gli studi sulla felicità e sul benessere soggettivo ci dicono con molta chiarezza che la principale causa di felicità delle persone è la vita di comunione, a partire da quella prima cellula di comunione che è la famiglia. Il ben-vivere dipende decisamente dalla qualità di rapporti comunionali a tutti i livelli, compresa quell’esperienza fondamentale di comunione che è il lavoro. Non bisogna, infatti, commettere l’errore di pensare che la comunione sia solo possibile nei rapporti intimi e familiari: la comunione è la vocazione più profonda e vera degli esseri umani in tutti gli ambiti nei quali l’umano si esercita.
Ci sono dimensioni della comunione talmente intime e spirituali che per descriverle avremmo bisogno della forza poetica di Dante e dei suoi geniali neologismi («s’io m’intuassi come tu t’inmii», Paradiso, IX); ma ce ne sono altre, non meno decisive per la qualità della nostra vita, che senza richiedere la mutua inabitazione delle anime, hanno bisogno che ciascuno senta e consideri che gli altri concittadini legati e necessari alla propria felicità – l’Europa soffrirà sempre, finché da comunità non diventerà anche comunione. È la comunione che ci consente di poter declinare i verbi della nostra esistenza in tutte le persone, in particolare la prima plurale ("noi"). Anche perché quando nella nostra sintassi manca la prima persona plurale, manca anche la seconda singolare, scompare il volto dell’altro, e ci si ritrova in comunità abitate da anonime e sole terze persone. La comunione, per evitare che diventi "comunionismo", va sempre declinata assieme a uguaglianza, libertà e gratuità. A differenza della comunità, la comunione richiede una certa uguaglianza, soprattutto quando dalla comunione dei beni si risale alla comunione tra le persone. È una uguaglianza in dignità, un riconoscersi "occhi negli occhi", sapendo che l’altro è lì, dentro quel rapporto, perché anche lui come me ha liberamente scelto di esserci (e domani magari di uscirne), e lo ha scelto con gratuità.
Per questo la comunione richiede il superamento degli status, e non è completa finché ciò non accade. La comunità può esistere e durare anche nelle società feudali e ineguali; la comunione richiede molto di più. E anche quando l’esperienza di comunione inizia all’interno di comunità non ugualitarie e castali, se quell’esperienza è autentica poco alla volta le mina dal di dentro e le trasforma. Come è accaduto nelle prime comunità cristiane e in quelle nate da grandi carismi religiosi e laici, dove la gente vi arrivava nobile o plebea, e subito si ritrovano dentro una nuova realtà di vera comunione, senza «né uomo né donna, né schiavo né libero …» (Paolo ai Galati). Per questa ragione la comunione insegna ai fratelli e sorelle di sangue una nuova fraternità, dove si comprende che fratelli si diventa. La comunione è tutta libertà, perché è esperienza altissima di gratuità – non a caso abbiamo voluto chiamare l'eucaristial, l’eu-charis anche comunione. La storia ha conosciuto e conosce comunità-senza-comunione, perché mancavano proprio questo tipo di uguaglianza, di libertà e di gratuità. Il nostro mondo soffre soprattutto per mancanza di comunione, a tutti i livelli, a partire da quello economico. Ci sarebbe bisogno di comunione per cercare di risolvere i gravi problemi delle miserie e dell’esclusione; la filantropia non basta, e spesso è dannosa, perché è faccenda unilaterale. La comunione chiede molto a tutti, a chi dà e a chi riceve, perché è una forma di reciprocità dove tutti danno e tutti ricevono. E dove tutti perdonano - senza perdono continuo e istituzionalizzato la comunione non dura.
La comunione è felicità, ben-essere, ben-vivere. Ma la vita dentro e attorno a noi ci mostra continuamente uno spettacolo di non-comunione. Dire, e continuare a ricordarcelo, che la comunione è vocazione dell’umanità, significa avere un’idea della salute e della malattia delle società umane. L’umanesimo ebraico-cristiano, ad esempio, ci racconta di un inizio dell’umanità di comunione, un inizio che è anche il fine ultimo della storia, la meta verso cui tendiamo. La non-comunione non è né la prima né l’ultima parola sull’umano. Dire che la comunione è la salute e la non-comunione la malattia, significa avere un’idea della terapia per curarci. La cultura dominante sta invece invertendo quest’ordine, e ha trasformato la malattia in salute. Lo fa tutte le volte che dice che la rivalità, l’invidia e sopraffazione dell’altro sono i principali agenti di crescita economica, e che la concordia, la gratuità e l’uguaglianza non aumentano i Pil.
Chi invece crede nella comunione come vocazione degli esseri umani, quando non la trova realizzata ripete, con don Zeno Saltini, «l’uomo è diverso» da come appare e, lo vediamo nella storia, è più "grande" delle sue disunità e discordie. È la possibilità reale di un "non-ancora" di comunione che rende possibili e sostenibili "già" della non-comunione. Quando questo orizzonte ampio si cancella, o viene bollato come utopia ingenua, l’umano si rimpicciolisce; mancandoci l’ideale che tira su i nostri sguardi anche quando siamo nel fango, la politica diventa cinismo, l’economia dominio, la socialità un carcere a vita. La qualità civile, morale e spirituale del III millennio dipenderà dalla capacità che avremo, a tutti i livelli, di vedere nell’essere umano di più di quanto vi abbiamo visto finora, e dotarci di istituzioni comunionali che favoriscano la pace, la concordia, il ben-essere e il ben-vivere.
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Con "comunione" termina questo primo brano di nuovo lessico. Sento il bisogno di tornare a cercare nuove parole in mezzo alle strade, alla gente, ai poveri, dove ho trovato quelle che ho cercato di raccontare finora. Il grande argentino Jorge Luis Borges, nel suo racconto «La ricerca di Averroè» immagina la crisi che visse il grande filosofo arabo quando si trovo a dover tradurre le parole di Aristotele "tragedia" e "commedia". Non riusciva a tradurle perché nella sua cultura gli mancavano (o pensava che gli mancassero) le esperienze che quelle due parole greche significavano. Uscì di casa, si mise a camminare nelle stradine spagnole di Cordoba e ad ascoltare i viaggiatori. Tornando nella sua biblioteca gli sembrò di aver capito il senso di quelle lontane parole. Ma l’Averroè di Borges sbagliò la traduzione («Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi»). Forse era passato troppo distratto tra le piazze e i mercanti, e non era stato capace di scoprire le tragedie e le commedie «giù, nel piccolo cortile sterrato, dove giocavano alcuni ragazzi. Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva da muezzin, quello che lo sosteneva immobile faceva da minareto, un terzo, in ginocchio, rappresentava i fedeli». In questa età, mirabile e difficile, di velocissimi passaggi, ci sono parole "grandi" che non riusciamo più a "tradurre", e così rischiamo di perderle per sempre. Dobbiamo tornare a guardare giocare i bambini sotto casa e a incontrare la gente nelle strade. Lì potremo ricomprende il senso di grandi parole perdute o logorate dal tempo, a partire dalla Parola che è diventata troppo straniera nelle nostre piazze e nei nostri mercati. È quanto cercherò di fare da domenica prossima, d’intesa con il direttore di questo giornale, con una nuova serie di riflessioni. Grazie a chi mi ha seguito in questo primo brano di "lessico", ai tanti che mi hanno scritto e che, me lo auguro, continueranno a farlo, donandomi ancora parole, semantiche diverse, nuove storie da raccontare, per raccontarcele l’un l’altro.l.bruni@lumsa.it