La vera sfida. Russia e Ucraina, non è mai troppo presto per negoziare
Quando non si sa da che parte iniziare, «negoziato» è parola buona per i titoli e per i dibattiti. Oltre che per misurare la reazione della controparte. Ma è anche un pretesto per mettere le mani avanti, accusare il nemico di non voler dialogare, e continuare a farsi la guerra.
Appena il leader ucraino ha ammesso che riprendere il Donbass occupato e la Crimea annessa dieci anni fa non è più alla portata delle bocche da fuoco di Kiev, c’è chi ha sperato in una svolta diplomatica e chi si è affrettato nei prevedibili «l’avevo detto, l’avevo scritto». I detrattori di Zelensky sostengono che tanto valeva negoziare (sottinteso: arrendersi) già il 25 febbraio 2022, il giorno dopo il primo sparo. E che riconoscere ora, al prezzo di migliaia di vite sacrificate, di non essere in grado di prevalere militarmente è un tardivo esame di coscienza.
La guerra, però, non è materia per rabdomanti. Il negoziato neanche. La mappa del conflitto aggiornata alle ultime 24 ore in verità non è così diversa da quella dei primi mesi del 2023, quando la controffensiva Ucraina aveva fatto riconquistare centinaia e centinaia di chilometri, permettendo di liberare decine di città e villaggi, tra cui Kherson, il più grosso centro abitato mai catturato dai russi e occupato fino all’11 novembre 2022. La vasta macchia rossa con cui i “geografi di guerra” segnalavano la presenza russa si è assottigliata, fino a coprire meno di un terzo del Paese. Per i giocatori di “risiko”, non è una vittoria. Ma è arduo parlare di sconfitta. Chi avrebbe scommesso tre anni fa sull’arretramento delle forze d’invasione russe?
Di sicuro molti non rammentano più che Bucha e Irpin sono a meno di 15 minuti d’auto da Kiev, e lì le forze di Mosca sono rimaste fino alla primavera 2022. Avevano intenzione di non andarsene più, se non fosse stato per la strenua resistenza ucraina. Ritirandosi, si sono lasciate alle spalle violenze e saccheggi. Chi ha seguito da vicino la liberazione delle aree occupate non ha dimenticato i corpi a pezzi gettati nelle fosse comuni di Izium: c’è voluta un’intera estate per ricomporre i resti di 478 civili. Così come non si può cancellare dalla memoria il sangue nelle camere delle torture a Kherson, dove le forze di occupazione seviziavano i civili tenendo le finestre aperte, affinché nell’abitato si sapesse cosa sarebbe accaduto ai “collaborazionisti” dei nuovi padroni. Era l’11 novembre 2022 quando le forze d’occupazione vennero scalzate. Negoziare prima di allora, alle condizioni di Vladimir Putin, avrebbe lasciato decine di migliaia di persone in balia dell’armata russa, della soldataglia Wagner e dei battaglioni ceceni. Per non dire dei bambini e dei minorenni trasferiti forzatamente e per i quali il negoziato umanitario, come la missione del cardinale Matteo Zuppi dimostra, è stato l’unico spiraglio per quando un giorno dovrebbe arrivare il tempo della diplomazia.
Dove coesistono e si contrappongono l’interesse politico, il potere personale e le vite disfatte di chi fino al giorno prima arava i campi senza doversi guardare le spalle, il negoziato non è più questione di cavilli e confini da ridisegnare. Perciò i diplomatici navigati raramente citano gli strateghi amati dagli analisti-influencer. Quelli del mestiere, ambasciatori e negoziatori che attendono di entrare in scena e da quasi tre anni intanto preparano il tavolo, dicono che la diplomazia, quando c’è da ragionare di macerie e di prigionieri, di miniere e di terre fertili, «è una questione di olio e di aceto». E bisogna sapere quando usare l’uno e quando dosare l’altro. Citano Oscar Wilde: «Fare una buona insalata significa che si è un brillante diplomatico; il problema è identico in entrambi i casi: sapere con esattezza quanto olio mescolare col proprio aceto». È quello il difficile del negoziare, riconoscere anche «il proprio aceto» e metterlo in tavola. Ma prima di tutto trovare il coraggio di accettare il rischio di passare per chi si arrende. È la differenza che passa tra lo statista che guarda avanti e l’autocrate aggrappato allo scettro. Il tempo del cominciare a «negoziare» non è mai troppo presto. Ma può arrivare anche troppo tardi. E quel tempo, più che mai, è adesso.