Famiglia. Non è la cicogna a portare i mammoni
Da tempo ci si chiede come mai in Italia si formano sempre meno famiglie e nascono sempre meno bambini, e ci si interroga su cosa fare per invertire la tendenza. Poi arriva un dato che sposta la questione su un piano completamente diverso, più a monte, e costringe a fare i conti con un problema che ultimamente era stato un po’ accantonato: i giovani adulti non lasciano la casa dei genitori. In cifre, due terzi degli italiani tra i 18 e i 34 anni vivono con la famiglia d’origine.
Attenti a dare giudizi, perché termini come "mammoni" o "bamboccioni" appartengono alla preistoria delle analisi sulla condizione giovanile. Il problema è più serio e questa emergenza generazionale non può essere liquidata con gli slogan, considerato che chiama in causa la cultura di una società e la sua struttura, mentre nella misura in cui diventa un motivo di stagnazione rischia di assumere connotati patologici. Già, perché a qualcuno può sembrare normale restare in famiglia quando il lavoro manca, è poco pagato o è precario, ma se il nostro 67% si confronta con il 34 della Francia e della Gran Bretagna, il 43 della Germania o il 48 della media di 28 Paesi europei, qualche problema dovremmo porcelo.
È veramente solo una questione legata alla crisi? Non sembra: quattro su dieci di coloro che restano in casa coi genitori hanno un lavoro full-time, solo il 25% è disoccupato. L’anomalia da primato europeo è ancora più evidente tra i 25 e i 34 anni, quando gli studi dovrebbero essere terminati: gli italiani che vivono con mamma e papà sono più della metà, mentre la quota di chi non ha rescisso il cordone ombelicale crolla a uno su dieci nella vicina Francia, a due su dieci in Germania, ed è di dieci punti inferiore persino in Spagna.Qui non stiamo parlando di mettere su famiglia o avere figli. Siamo a un livello molto precedente. I giovani adulti non escono di casa nemmeno per andare a vivere da soli, nemmeno per conquistarsi un minimo di autonomia e divertirsi con gli amici. Il dato forse più preoccupante è la caduta della spinta all’indipendenza nei giovani maschi, a riprova che la dimensione culturale è prevalente: tre su quattro di chi non se ne va sono uomini.
Noi sappiamo che posti di lavoro stabili, abitazioni a costi accessibili e prospettive di fiducia nel futuro sono le condizioni di base per favorire la costituzione di nuove famiglie, o quantomeno incominciare a spezzare i legami con quella d’origine e tentare di affrontare l’avventura della vita. Ma sappiamo anche che spesso sono bassi livelli di autostima nell’adolescenza o una scarsa attitudine alla responsabilità a produrre alti tassi di fragilità sociale e occupazionale in futuro. Quando un giovane confida ai sondaggisti di desiderare un certo tipo di vita, magari un matrimonio felice o una prole numerosa, siamo sicuri che abbia gli strumenti per realizzare i suoi sogni? Che cioè sia convinto di essere in grado di farcela e disposto ad assumersi la responsabilità necessaria a diventare adulto, con il peso delle difficoltà che questo comporta?
"L’Italia non è un paese per giovani" è il ritornello che accompagna ogni valutazione di questa anomalia tutta italiana. Lo ha ricordato bene anche l’ultimo rapporto Caritas nel mettere in luce come negli ultimi anni la povertà sia aumentata per gli under 35 e sia calata per chi ha più di 65 anni. E lo rammentano ogni giorno le misure di politica economica che premiano la rendita delle generazioni più anziane a discapito delle misure a favore di chi si impegna in una famiglia. O la filosofia di un welfare che spinge a vivere sulle spalle dei genitori e dei nonni e a dipendere dai loro aiuti, anziché favorire l’emancipazione e l’autonomia di chi è diventato adulto.
Eppure insistere solo sulla dimensione pubblica è limitante. C’è un tratto privato molto forte da considerare, e che richiama il tipo di educazione impartita in famiglia, il compito dei padri e delle madri che si ridefinisce in una stagione di abdicazione dei ruoli. A che serve uscire di casa se in fondo non vi è alcuna differenza col restare? Se la famiglia di origine può essere a scelta una comunità di parenti o una compagnia di amici? O una meravigliosa cellula di protezione dalle difficoltà del mondo esterno?
L’aumento del numero di genitori che socializzano le lettere con cui difende la prole dai compiti impartiti dagli insegnanti, o di coloro che accompagnano i figli nelle aule universitarie o ai colloqui di lavoro ci dice che l’anomalia italiana non è destinata a venire meno in breve tempo. Con tutto quello che comporta in termini di sviluppo di una società.