Non è una cifra come tante altre, come le percentuali di Pil o di inflazione, fluttuanti, oscillanti di mese in mese. Ne avete letto ieri sulle nostre pagine, e anche su questa prima pagina nel commento di un grande esperto. 503 mila nati in Italia nel 2014 e 598 mila morti, il bilancio dell’ultimo rapporto Istat, è un saldo demografico in rosso come questo Paese non ne aveva avuto dal 1917, quando i bambini non nascevano perché gli uomini erano al fronte a morire. Solo grazie a 200 mila immigrati, e ai loro figli, il bilancio non è ancora peggiore. E certo questo è frutto della crisi, della disoccupazione, del precariato che ricatta le giovani donne, spesso costrette a scegliere tra un figlio e il lavoro. Ma non si può non vedere come un tale picco di non-nati sia anche la continuazione della tendenza iniziata negli anni 70, quando in Italia si scese al di sotto dei 2 figli per donna. Di mezzo c’è stata una rivoluzione – la pillola, l’aborto, la crisi della famiglia, le conquiste del lavoro femminile. E tuttavia, la rivoluzione è stata ovunque, ma pochi altri Paesi in Europa registrano una denatalità come la nostra.Di modo che, leggendo i numeri dell’Istat, non si può evitare un retrogusto di amaro; la sensazione che, come popolo, stiamo perdendo slancio e fiducia, e voglia di vivere. Un indefinibile inaridimento: come quando un albero non butta, a primavera, i germogli con abbondanza, e si pensa che sia vecchio, o malato.Non sappiamo ancora come un simile sbilanciamento demografico cambierà il nostro vivere, anche se possiamo paventare un’Italia di vecchi e un welfare che non basterà a prendersi cura di tutti. Ma già, ci pare, questo inaridimento ha cominciato a cambiare noi, nei cortili delle città in cui non si gioca più a pallone (perché l’allegria dei bimbi disturba), nei figli unici spesso iperprotetti e viziati, nella scarsa attenzione alla (buona) educazione, alla scuola, ai ragazzi nostri e degli altri. Come se una generazione avesse preso a vivere per sé sola, per il presente, per il mantenimento dei diritti e del benessere conquistati; senza preoccuparsi di chi cresce, di chi verrà dopo. Dentro a un individualismo, a una miopia, forse anche a un’avarizia che già sembra di percepire nel fiato collettivo.Si grida all’«invasione», quando senza immigrati saremmo già ridotti a una sorta di distrofia muscolare, senza forza, cioè senza braccianti, manovali, carpentieri. Si grida all’epidemia, alla scabbia o addirittura, come ha detto qualcuno, alla "rogna", quando più della metà di quelli che arrivano sulle nostre coste – ad ora, in realtà, il 10 per cento in più dell’anno scorso – sono profughi in fuga, aventi diritto d’asilo secondo le convenzioni internazionali. Cioè impegni cui l’Italia ha aderito nella immediatezza degli anni bui dell’ultima guerra. Ma questa memoria, in una parte almeno del Paese, sembra perduta; si avverte invece un’aspra ansia di sbarrare le porte, e di lavarsi con gran cura le mani (eppure, se non fosse per i circa 80 mila stranieri che nascono in Italia ogni anno, saremmo ancora più drammaticamente poveri di bambini).Pare quasi che la denatalità endemica, prima di cambiare il welfare, abbia cominciato a cambiare noi, rendendoci più paurosi, e meno generosi. Con gli stranieri e con gli stessi ragazzi nostri, indotti a andarsene altrove anche da un’aria che si respira, una strettezza di prospettive, un dubbio non detto, ma palpabile, sul futuro. Viene il sospetto che ciò che ha cominciato a logorarci, e ora risulta evidente dalle statistiche demografiche, sia stato un cambiamento di sguardo: una crescente collettiva carenza di senso paterno e materno. Essendo sempre meno padri e madri, ci si è ristretto l’orizzonte, e abbiamo preso a pensare solo a noi, all’interesse nostro, a ciò che ci appartiene e ci spetta; aumentando l’indifferenza per chi nasce, chi cresce, per chi arriva, per chi continua la nostra storia.Econtinuiamo a parlare ossessivamente di "crescita", ma nel profano affiora un dubbio: quale crescita reale ci può essere, calando la popolazione, se non in un accanimento nei consumi?
Quel saldo in rosso, mai visto dal 1917, lascia immalinconiti e inquieti, come il marchio di un popolo stanco. Stretto a ciò che possiede, spesso ostile a chi arriva, anche se, numeri alla mano, di quelle braccia e di quei figli abbiamo bisogno.Come fossimo gente che, dimenticandosi cos’è essere padre e madre di una numerosa famiglia, abbia perso anche qualcosa di sé. Il respiro, la larghezza, la speranza di chi vede i suoi figli diventare grandi - e da quello stesso crescere trae fiducia. Ma non per tutti è così. Non nel profondo di ciascuno. Da lì dobbiamo saper guardare e vedere. E ripartire.