Opinioni

Il direttore risponde. Noi, i poveri e la mensa condivisa

Marco Tarquinio domenica 9 dicembre 2012
Caro direttore,
mercoledì scorso ho girato tutto il giorno attorno alla sua risposta al signor Romaldi. Mi raccontano che in alcune famiglie 'prospere' della Cagliari di un tempo ormai definitivamente andato (ho sessantadue anni e parlo di quando i miei genitori erano giovani, i primi del Novecento) usavano far sedere a tavola con loro i poveri che bussavano alla porta. Non so se sono storie vere e nulla m’importa di una tale verità 'storica'.
Mi preme sottolineare il senso profondo di un tale gesto di bontà. Non solo dividi il tuo pane, ma ti siedi a tavola con l’ospite principale e lo servi. Così mi piace pensare alle donne che l’hanno fatto, e mi piace essere convinto che siano storie e donne vere, e mi piace vedere queste donne 'bene' in una città d’un altro mondo che poi, la sera, andavano a teatro o al ristorante sapendo di aver servito Gesù a tavola, seduto a mangiare con loro e con la loro famiglia. E ascoltavano la Bohème o sorseggiavano un vino costoso tenendo nel cuore questa reliquia preziosa. Un gesto d’amore impossibile. Oggi. Perché oggi ci sono le mense e non ci si siede più a tavola con Gesù. Mi sembra che siamo nel tempo della vittoria di Manzoni e dell’erede di don Rodrigo.
Abbastanza umile da servire a tavola i poveri, non così umile da sedersi a tavola con loro. Così noi siamo abbastanza umili da dare soldi e attenzione ai poveri, ma non così umili da dividere gli stessi negozi. Se sono poveri, non possono venire nei negozi dove mi servo io.
Perché? Lo chiedo a lei. Dobbiamo imparare i gesti dell’amore impossibile: quello che non giudica, ma ama e si fa mettere nella croce del suo amore. Senza chiedere niente, solo dando.
Grazie per avermi tormentato un pochino.
Come vede, le restituisco il favore. Gioia in Gesù Risorto.
Raffaele Ibba, Cagliari
 
Ho una risposta semplice e davvero povera, caro professor Ibba: dei negozi dove entriamo o non entriamo m’importa relativamente, della mensa alla quale sediamo molto di più. È la mensa – ogni mensa condivisa e soprattutto 'quella' mensa – che costruisce una comunità, le dà vita, memoria e altezza. Chi ce l’ha insegnato, in una sera di Gerusalemme che per noi cristiani non ha più avuto fine, sapeva quel che faceva e di ogni parola e gesto conosceva la bellezza scomoda, la luminosa difficoltà e l’impegnativa potenza. Grazie per averci regalato un quadro di umanissima e femminile carità cristiana in una Cagliari che forse non c’è più o che forse, un po’ nascosta, c’è ancora. E grazie, lo dico con la sua identica gioia, per il piccolo «tormento» che mi ha restituito.