Noi vittime ignorate. Il dramma di disabili psichici e famiglie
Sia chiaro, innanzi tutto, che questo non è un lamento. È semmai una testimonianza e vale per se stessa, ma forse può dare voce a tante persone che hanno ormai perso le parole e non piangono nemmeno più, perché hanno finito le lacrime. Parliamo dei disabili psichici e delle loro famiglie. Non con le solite quattro frasi di circostanza, però. Ne parliamo da dietro le quinte di uno spettacolo che nessuno vuole vedere, di un teatro dell’assurdo che nessuno protesta per riaprire, ma dove oltre il sipario chiuso va comunque in scena, giorno dopo giorno, il dramma.
Repliche all’infinito e senza pubblico, già da prima della pandemia, i cui personaggi non sono in cerca d’autore ma soltanto di un po’ di pace che, come Godot, non arriva mai. Sono, siamo, i 'nascosti' agli occhi della collettività. Perfino più dei detenuti e dei senza dimora. Non è giusto, e tuttavia è comprensibile: si distoglie lo sguardo da ciò che fa paura, che è impossibile spiegare, talvolta perfino raccontare. Il Covid ha fatto il resto, e il resto è tanto male. Queste famiglie sono, siamo, tra le sue vittime anche senza aver contratto il virus. Signore autorità, esperti veri o sedicenti che concionate alla tv, potete aggiornare le vostre statistiche.
Già, le statistiche. Un numero, una percentuale, possono risultare più piccoli o più grandi: la differenza sta nel leggerli al di qua o al di là della porta metallica di un reparto di psichiatria, al di qua o al di là del vetro di un pronto soccorso, in quante volte nell’ultimo mese ti sei ritrovato in quel pronto soccorso «in stato di agitazione» o in preda a «crisi psicotiche » o epilettiche.
Ad ogni modo, recenti statistiche affermano che in questo anno di 'chiusure' e di 'distanze' sono aumentati in maniera allarmante i casi di disturbi mentali, in special modo tra i bambini e gli adolescenti. Non dicono che cosa è successo a chi il disturbo mentale ce l’aveva già, magari grave. È successo che, gradualmente ma velocemente, è peggiorata una situazione che fino a quel momento si pensava già la peggiore possibile. È cambiata la vita di tutti, anche di coloro che non riescono a elaborare le ragioni di una simile, necessaria, rivoluzione, di tutte quelle porte sbarrate, delle saracinesche abbassate, degli abbracci negati, dei sorrisi bendati. Niente più centro diurno, niente attività organizzate, niente. Il lockdown, quel mistero inspiegabile spiegato centinaia di volte: «Certo non si può uscire, perché c’è il virus.
Ma adesso andiamo a fare due passi, non posso stare tutto il giorno in casa». C’era la deroga, per fortuna. E che fortuna poter vagare di domenica per le strade deserte di una città terrorizzata, circondati da ambulanze urlanti e da altri disperati, oppure incoscienti. Un paio d’ore al mattino, un paio al pomeriggio. Con la pioggia o con il sole. Poi la riapertura di maggio, un’estate quasi 'normale' in cui però ti accorgi che la tua 'normalità', precaria e altalenante, non torna. Le ossessioni si sono ingigantite, le insicurezze sono mutate in paure, l’agitazione in rabbia.
Con l’autunno le nuove chiusure, poi le zone colorate, le domeniche e le festività in rosso che diventano nere: richieste, insulti, minacce, urla, seguite da carezze, abbracci, «scusa», subito dopo altre richieste, altri insulti, altre minacce, e ancora «scusa», abbracci, carezze... anche più volte nel corso di un’ora. E un’ora è lunga un secolo e in un giorno ci sono 24 secoli. Perché nel frattempo anche il sonno, unica vera certezza dei tempi andati, è stato invaso e bombardato dalle ossessioni e dalle paure, dagli insulti seguiti da «scusa».
È così che si perdono le parole, nelle notti più buie spariscono pure quelle per pregare. Forse è normale: quando la vita ti piega, guardi solo in basso. Ma non a lungo. Non si sa come, si trova sempre (ma sempre meno) la forza di rialzare lo sguardo. Ancora un’altra replica a sipario chiuso: il sonno è tornato, la pace ancora non si vede. Ecco che cosa è successo, dietro le quinte. Se è troppo, e probabilmente lo è, tornate pure a dimenticarci. Siamo abituati.