Guerra (non solo) in Siria e Pacem in Terris/2. Noi, artigiani disarmati
Nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate un paragrafo è dedicato, tra gli altri destinatari delle Beatitudini, agli «operatori di pace». Questa beatitudine, ha scritto il Papa, «ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono» (87). E ha concluso: «Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza. Seminare pace intorno a noi, questo è santità». Certo non sembra, questa stagione di «guerra mondiale a pezzi» in cui le logiche e mezzi di morte continuano a trionfare dalla Siria al cuore dell’Africa, un tempo in cui tale santità sia molto praticata. E però, proprio per questo, a maggior ragione, i nostri sono giorni in cui una strada del genere va percorsa con più tenacia e convinzione.
È vero, gli anni del disordine globale, del «mondo senza centro» non sono facili. Viviamo una di quelle rapide della storia di cui scriveva Pavel Florenskij, sacerdote e pensatore russo ortodosso, inghiottito dal gulag: «Siamo nati in una rapida della storia, in un punto di svolta dell’andamento degli avvenimenti storici».
Ma questa grande figura di martire aggiungeva: «I posteri invidieranno che non sia toccata a loro la sorte di essere testimoni della trasfigurazione del quadro del mondo». Ci è toccato in sorte un tornante difficile. Perché? Per agire, per incidere, per sforzarsi – parafrasando Hillel, grande sapiente ebraico dell’inizio dell’era cristiana – di essere uomini là dove di uomini “umani” ce ne sono pochi. Non possiamo rinunciare a farci artefici di una trasfigurazione in meglio del mondo. Non possiamo arrenderci al fatto che la guerra e la violenza siano ormai “riabilitate”. Siamo anzi chiamati a far emergere il meglio da noi stessi e dagli altri. Costruendo qualcosa di degno e di umano per tutti. E per tutte le terre del pianeta.
Lo stesso ricorrere dei giorni ci aiuta a comprendere e a custodire la speranza che si possa fare qualcosa. Siamo infatti a 55 anni dalla promulgazione (l’11 aprile 1963) dell’Enciclica Pacem in terris.
In quel testo Giovanni XXIII si rivolgeva per la prima volta a «tutti gli uomini di buona volontà». E spiegava di volerlo fare per soffermarsi «sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà». Mi piace sottolineare l’insistenza sulla totalità che il «Papa buono» volle fosse evidente fin dal titolo del documento, fin dal declinarsi dell’indirizzo.
C’è un “tutti” cui guardare, nessuno escluso. C’è un sentimento di fraternità planetaria da far crescere, sì ché cominciamo a sentire come intollerabile il prolungarsi di tanti conflitti, e tra questi, in modo tutto particolare, quello che tormenta la Siria. Sapendo quanto vi è accaduto negli anni scorsi, negli ultimi giorni – penso alle terribili conseguenze delle armi chimiche –, e nelle ultime ore.
Occorre ribadire che l’utilizzo delle armi non porta alla pace. «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato» (Pacem in terris, 67), scriveva papa Roncalli. Forse ce ne siamo dimenticati in questi decenni liquidi e irrazionali. Ma la consapevolezza di quegli anni Sessanta è capace di diradare la nebbia nella quale tante volte siamo immersi. Citando un suo predecessore, quel saggio pontefice continuava: «La violenza non ha mai fatto altro che abbattere, non innalzare; accendere le passioni, non calmarle; accumulare odio e rovine, non affratellare i contendenti; e ha precipitato gli uomini e i partiti nella dura necessità di ricostruire lentamente, dopo prove dolorose, sopra i ruderi della discordia» (86). I credenti devono dirlo ad alta voce: l’uso delle armi non garantisce la nostra sicurezza; piuttosto mette a repentaglio le nostre vite e il futuro delle nostre società. È semplicemente irragionevole! «La Siria è carne e sangue dei civili innocenti oppressi e uccisi con ogni mezzo (non ultimo il gas, chiunque l’abbia davvero usato), non una scacchiera sulla quale muovere le proprie pedine o lanciare i propri ordigni», ha scritto Andrea Lavazza su queste pagine. È tempo che il nostro mondo lavori per sanare le ferite di quello sventurato Paese, non per aprirne di nuove. Per ricomporre una società lacerata, non per dividere ulteriormente culture e religioni. Per salvare vite umane e non perderle.
Presidente Comunità di Sant’Egidio