Opinioni

Reportage. «Noi, Ahmadi, musulmani ma perseguitati in Pakistan»

Stefano Vecchia mercoledì 16 giugno 2021

Un gruppo di fedeli Ahmadi radunati in preghiera in Germania, in un’immagine pre-pandemia

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo. Vogliamo essere considerati e ci consideriamo musulmani, ma lo scontro è sul piano teologico e escatologico». Su queste basi – soprattutto il ruolo messianico del fondatore – ricordate da Ataul Wasih Tariq, imam della comunità Ahmadi nel nostro Paese e vicepresidente dell’associazione The Ahmadiyya Muslim Jama’at Italia, si concretizza oggi in Pakistan la discriminazione verso questa minoranza religiosa con modalità non dissimili da quelle che toccano altre minoranze del Paese, ma con presupposti diversi.

Gli Ahmadi (anche noti come Ahmadiyya o Qadiani), oggi calcolati in cinque milioni, non sono un’organizzazione religiosa “esterna” sul piano geografico all’odierno Pakistan e nemmeno “estranea” rispetto all’islam, dato che questa forma considerata oggi eretica ha origine nell’ampio movimento riformatore che tra la fine del XIX e l’inizio del XX interessò, insieme ad altre aree del mondo islamico, le vaste comunità musulmane del Subcontinente indiano. «La comunità Ahmadi (Ahmadiyya Jama’at) è stata fondata il 1898 a Qadian, in India sotto il potere britannico. Il santo fondatore della comunità, Mirza Ghulam Ahmad Ahmad, fu il riformatore promesso dal profeta Maometto per unire le comunità musulmane sotto una visione islamica – ricorda l’imam Tariq –. Un’autorità che riuscì anche a motivare i musulmani a reagire alle pressioni di altre religioni. A quel tempo l’India era un Paese dove – ancor più di oggi – si confrontavano varie fedi e dove non mancavano tensioni e anche conflitti. Il nostro fondatore propose allora come i musulmani dovrebbero comportarsi per rispondere a questa realtà, anche rinnovando la teologia della propria fede». Una proposta che guadagnò consensi ma che, con la fine dell’esperienza coloniale in India e dalla contemporanea nascita del musulmano Pakistan il 15 agosto 1947, vide una svolta nei rapporti già complessi con le forme maggioritarie dell’islam sunnita che divenne persecuzione con la messa fuorilegge dell’identità religiosa della comunità nel 1974.

Recentemente, atti persecutori letali hanno ottenuto visibilità internazionale. L’11 novembre 2020, un uomo di 82 anni è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa a una fermata dell’autobus nella città di Peshawar, il quarto delitto in città in quattro mesi contro un Ahmadi. Il 20 novembre dello scorso anno, a Nankana Sahib nella provincia del Punjab, un adolescente ha bussato alla porta del medico omeopatico Tahir Ahmad mentre era in corso una celebrazione religiosa e lo ha freddato a colpi di pistola, ferendo anche l’anziano padre e altri due degli Ahmadi che erano con loro. Un’azione ha indicato il sedicenne alla polizia, commessa perché stavano «insultando l’islam». Fatti che hanno sollevato una reazione internazionale e nuova attenzione verso la condizione della minoranza, sottolineata anche da un dibattito parlamentare in Gran Bretagna nei giorni successivi. Le reazioni non hanno fermato nuove violenze quest’ano, culminate con l’uccisione di un sessantacinquenne Ahmadi l’11 febbraio a Peshawar all’esterno di una clinica gestita da un medico appartenente alla stessa comunità.

La Costituzione pachistana che proclama l’identità islamica della nazione riconosce e tutela la diversità religiosa, non senza ambiguità e discriminazioni. La comunità Ahmadi non è proscritta, ma è proibito ai suoi membri di proclamare l’adesione all’islam, pena sanzioni severe fino alla condanna a morte secondo l’articolo 295C del Codice penale che punisce l’uso di espressioni offensive verso il profeta Maometto. «In realtà, la Costituzione è stata emendata per imporci quello in cui dovremmo credere. Il governo pachistano – spiega Ataul Wasih Tariq – non ci ha solo considerati 'infedeli' ma anche costretto a comportarci come tali. Faccio un esempio: Se usiamo il tradizionale e universale saluto islamico, as salaam aleikum, usato perfino dai turisti in visita al nostro Paese, un Ahmadi rischia fino a tre anni di carcere, ma se – in un contesto in prevalenza islamico – non saluta gli altri secondo l’uso, ne viene messa in discussione l’identità. Non possiamo indicare i nostri luoghi di preghiera come moschee e quindi in molti casi dobbiamo riunirci in segreto, solo per ascoltare il sermone».

Sono cinque milioni e vivono sotto assedio Ritenuti eretici, non possono manifestare pubblicamente la propria fede e di recente sono stati obiettivi di omicidi mirati

«L’odio che i mullah hanno istigato contro di noi nei vari segmenti della società ci mette in grande difficoltà – prosegue l’imam –. Pensiamo all’applicazione della legge antiblasfemia nei nostri confronti. Per noi, come per i cristiani, non solo è difficile provare la nostra innocenza, ma spesso la nostra vita viene lasciata nelle mani della folla». Una condizione di subordinazione imposta che costringe a vivere nel nascondimento e nella paura. Come conferma ancora la guida religiosa: «I nostri figli non possono andare a scuola per non essere individuati come Ahmadi e devono spostarsi in centri più lontani dove non siano conosciuti. Ci sono commercianti che si rifiutano di vendere agli Ahmadi. In Pakistan, è obbligatorio indicare sui documenti d’identità la fede di appartenenza e anche questo ci pone davanti a un continuo dilemma tra conferma e negazione della nostra identità religiosa, tra necessità di essere parte di una società che ci esclude. Così, sono tanti quelli che non partecipano alle elezioni per non subire ulteriori discriminazioni, ma questo fa sì che la politica si disinteressi di noi».

Una situazione pure evidente nella città di Rabwah (Chenab Nagar), unica ad essere abitata da una maggioranza di Ahmadi. Data la sua identità, si potrebbe pensare che la popolazione viva in sicurezza, ma così non è. Gli abitanti – indicano diverse testimonianze – vivono in condizioni estremamente difficili, sotto assedio, con la difficoltà ad avere servizi necessari e protezione. Una situazione che sovente si estende anche alle comunità Ahmadi sparse per il mondo. In Europa sono ben radicati, addirittura – rivendicano – furono i primi tra i musulmani ad essere riconosciuti come comunità. La Gran Bretagna ospita forse la presenza più consistente fuori dal Pakistan e lì vive l’attuale guida suprema (califfo), Mirza Ahmad Masroor. Ci sono Paesi in cui gli Ahmadi rivendicano di essere gli unici rappresentanti della fede islamica, altri in cui non hanno limitazioni alla pratica religiosa, mentre in altri ancora – in particolare del Medio Oriente e del Nordafrica – vanno crescendo restrizioni e rischi. « Nonostante la persecuzione noi restiamo fedeli al nostro Paese. Non accetteremo mai qualcosa che danneggi il Pakistan », sottolinea l’imam Tariq. Resta tuttavia la necessità di radicare sempre più la comunità all’estero, in questo facilitati da una struttura gerarchica interna ignota all’islam tradizionale. «In Italia siamo riconosciuti come associazione dal 1999. Stiamo cercando di avere nostri luoghi di culto ma, anche se non abbiamo ostacoli da parte delle autorità, dobbiamo agire con cautela a partire dai rapporti con le altre comunità musulmane. Cerchiamo anche di consolidare rapporti di amicizia e dialogo con le varie Chiese e realtà religiose presenti sul territorio seguendo la nostra ideologia 'Amore per tutti, odio per nessuno' che cerchiamo di concretizzare anche attraverso le campagne 'Musulmani per la Pace' e 'Musulmani per la lealtà'. Io stesso partecipo in Italia al coordinamento nazionale di 'Religions for Peace' (Religioni per la Pace)». Una pace che, purtroppo, stenta ancora a realizzarsi.