Opinioni

Ad Atene una scelta che pesa. No al fascino dell'abisso

Giorgio Ferrari domenica 17 giugno 2012
Mentre state leggendo queste righe qua­si dieci milioni di greci si stanno re­cando alle urne per la più tormentata con­sultazione elettorale della loro storia. In gio­co ci sono la permanenza di Atene nell’U­nione Europea, il futuro dell’euro, la deriva di una nazione precipitata dal lungo e in­gannevole nirvana nel quale l’avevano con­finata i due maggiori partiti – il Pasok so­cialista come i conservatori di Nea Demok­ratia – nel più ingeneroso dei risvegli, dove l’insicurezza e la precarietà individuale si sposano con l’instabilità dei governi e con la prospettiva di un’uscita ingloriosa dalla modernità, dalla speranza di un futuro per milioni di giovani e il crollo di una società incapace di provvedere ai bisogni elemen­tari dei propri cittadini. Ventidue formazioni politiche si contendo­no il consenso, ma solo due, il partito di de­stra guidato da Antonis Samaras e i radica­li di sinistra di Syriza, hanno le carte in re­gola per formare un nuovo governo di coa­lizione. Entrambi i partiti hanno molto am­morbidito i toni nelle ultime ore, certi di in­tercettare quel voto moderato che assom­ma il 70% dell’elettorato e che non vuole che la Grecia esca dall’euro e riadotti la drac­ma. Il risultato sembrerebbe quasi sconta­to perché la scelta è fra due scenari opposti: riforme oppure stagnazione, Europa o iso­lamento, progresso o declino. Il problema è la credibilità della classe politica perché, die­tro le frasi di circostanza, rimane per en­trambi gli schieramenti un puntiglioso ri­chiamo ai grandi elargitori, le banche, il Fon­do Monetario Internazionale, la Commis­sione Europea e la Bce: rinegoziamo il pia­no di salvataggio, cerchiamo condizioni mi­gliori e meno avvilenti per milioni di citta­dini. Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, non nasconde in caso di vittoria l’intenzione di nazionalizzare le banche e congelare il pia­no di privatizzazioni già previsto dal fami­gerato «memorandum», quel pacchetto di intesa che l’Europa (con in testa la Germa­nia) ha concordato con i precedenti gover­ni greci per impedire che al default tecnico del Paese (che ormai nessuno più nega: a metà luglio lo Stato non avrà più i fondi per pagare stipendi e pensioni) segua il collas­so sociale, con i pericoli che ciò comporta. Qualcuno ha parlato addirittura del rischio che dopo trentotto anni di democrazia la Grecia possa di nuovo precipitare nel grem­bo del primo masaniello che troverà le pa­role per incanalare la rabbia e l’umiliazione delle centinaia di migliaia di persone che si sono viste ridurre il salario, che hanno per­duto il posto di lavoro, che fanno incetta di euro ai bancomat e che consigliano ai pro­pri figli di emigrare, perché – come recita un tragico striscione appeso proprio davanti al Parlamento – la vita è migliore «ovunque, ma non qui». Questa umiliante discesa agli inferi di un Paese dal lungo e orgoglioso passato si po­teva e si doveva evitare. Grande in tal senso è la responsabilità politica e morale – come più volte abbiamo spiegato su queste co­lonne – degli arcigni «contabili» dell’Unio­ne Europea, come totalmente assente dal proscenio è stata la visione ideale dei padri che avevano costruito l’Europa del dopo­guerra, soppiantata da una maldestra mio­pia e da malriposti interessi di bottega (e di limiti oggettivi trasformati in «muri») di cui la Germania – ma non solo la Germania – è smagliante campione. Il risultato e che la «punizione» inflitta alla Grecia che trucca­va i conti e viveva al di sopra delle proprie possibilità rischia di tradursi da domani in un boomerang che colpirà al cuore il siste­ma bancario europeo e finirà con il rimbal­zare oltreoceano, restituendo a Wall Street il contraccolpo di una crisi che proprio da lì era cominciata nel 2007. Ed è questo il rischio maggiore per i greci che vanno al voto: quello di lasciarsi travolgere dal fascino perverso della rovina, dall’abis­so che l’uscita dall’euro comporterebbe, dal baratro nel quale trascinare Cipro, il Porto­gallo, la Spagna, in parte anche l’Italia, con il riso sardonico di chi si vendica del fato sa­pendo di essere il primo a subirlo. Per que­sto – da Berlino a New York, da Parigi a Tokyo – saranno in molti a restare vigili la notte che viene: anche per i Paesi ricchi e virtuo­si si gioca un pezzo importante di futuro.