Le sfide del male e i trend da invertire. No all’eclissi dell’empatia
Le immagini di una guerra d’Ucraina crudele e sanguinaria che sembra non finire mai e di altri e altrettanto infiniti conflitti; i corpi di uomini, donne, bambini annegati nelle acque del Mediterraneo; le notizie sconvolgenti di troppe stragi familiari; la violenza gratuita e insensata di bande giovanili nelle periferie della marginalità e della disperazione.
Viviamo un tempo che, nonostante il bene in atto, sembra avvitarsi nella spirale del male. Che cosa sta succedendo? Due grandi pensatori del secolo scorso – Hannah Arendt e Zygmunt Bauman – nel cercare di comprendere un evento così drammatico come la Shoah – uno sterminio di massa programmatico e razionalmente organizzato – hanno sostenuto che alcuni dei caratteri tipici della età industriale – l’impersonalità, la burocratizzazione, l’oggettivazione – avevano seminato le premesse culturali su cui quella enorme efferatezza storica si è poi potuta sviluppare.
Sia chiaro: il male non ê questione sociologica. Esso alberga da sempre nel cuore dell’uomo. Ma i modi e l’intensità in cui esso si manifesta sono legati alle condizioni storico-culturali. E ci sono momenti in cui il male si addensa e sembra quasi capace di prendere il sopravvento. Per questo, per evitare di ritrovarci di nuovo la dove non vorremmo, è bene rifarsi alla lezione di Arendt e Bauman ponendo qualche domanda al tempo che viviamo. L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di immedesimarsi nell’altra persona, di comprenderne lo stato d’animo, di provare i suoi stessi sentimenti ed emozioni. Da qui il venire mossi dal dolore dell’altro fino ad arrivare a prendersene cura.
Sappiamo che, come insegna la parabola del Buon Samaritano, il passaggio non è automatico: la presa in carico è sempre un salto non assicurato. Ma è chiaro che questa apertura all’altro – su cui si fonda quel bene necessario che è la solidarietà sociale – rischia di non darsi più quando è la qualità delle nostre relazioni a deteriorarsi. Fino al punto di non sentire più il dolore del mondo e diventare così capaci di “digerire” qualunque crudeltà.
Il bollettino quotidiano dei morti ammazzati, dei disastri in cui sono intrappolate intere popolazioni, dei dolori e persino delle torture inflitte a tanti uomini e donne in tutto il mondo, svela tensioni e disagi profondi. Ai quali non riusciamo a dare risposta perché siamo connessi ma soli, interdipendenti ma slegati. La “globalizzazione dell’indifferenza”, denunciata con insistenza da papa Francesco, è il terreno ideale su cui il male, senza più resistenza, può proliferare. E nell’età digitale, l’addormentamento dell’empatia si produce silenziosamente su tre piani della nostra vita quotidiana. In primo luogo, in una società in cui il rapporto con l’altro è continuamente evocato ma al tempo accuratamente evitato, l’empatia si affievolisce fino quasi a spegnersi. Lo confermano le ricerche sperimentali: la distanza dal luogo della sofferenza altrui indebolisce la probabilità di una risposta attiva. Dietro, uno schermo, (quasi) tutto diventa tollerabile. Nella solitudine dello sguardo alla fine a crescere è lì odio verso il diverso.
Il guaio è che, ogni giorno che passa, ci abituiamo a guardare sempre più distrattamente le tante storie drammatiche che vediamo rappresentate. Al punto da non riuscire più a sentirci coinvolti più di tanto nemmeno di fronte a una carneficina come quella sulla costa di Steccato di Cutro. In secondo luogo, tutto è troppo veloce. Le notizie ci assalgono e le immagini scorrono via in fretta. Diventa difficile riuscire a soffermarsi davanti a qualcosa. Non c’è più il tempo per interiorizzare il dramma altrui. Per sostare con lui. Per affezionarci e volere bene. Vedere tanto senza essere mai veramente toccati ci costruisce addosso una crosta che ci scherma ancora di più dal mondo e dai suoi dolori. Rendendoci, giorno dopo giorno, un po’ più disumani.
Infine, c’è la tendenza all’equivalenza generalizzata. Nei telegiornali un massacro viene seguito dalla notizia sulle previsioni meteo, mentre le immagini del fronte della guerra sono messe sullo stesso piano dei risultati della Champions League. Ma la totale omologazione di notizie che hanno peso e significato radicalmente differente pregiudica la nostra percezione della realtà e mina la nostra coscienza: sembra che non ci sia più nulla per cui valga la pena impegnarsi. Qualcosa per cui lottare davvero. Da qui, dunque, la domanda che ci dovrebbe inquietare: dove va una società senza empatia? I segnali non sono rassicuranti. E per questo è importante cercare di invertire la tendenza.
Come altre capacità umane, l’empatia si impara. Prima di tutto tornando a fare esperienza dell’altro concreto. È solo l’esercizio dell’esposizione al volto dell’altro – mettendosi accanto ai tanti «cristi abbandonati», come ha detto la Domenica delle Palme papa Francesco – che possiamo alimentare quelle attitudini di cui abbiamo disperatamente bisogno per fermare l’emorragia di male a cui sembra destinata la società contemporanea. Non è forse questa la prima educazione che dobbiamo tornare a praticare?