Giovani e performance. No all'angoscia dell'eccellenza (e mai impoverire in umanità)
Tre studenti universitari si sono tolti la vita nel 2022; a gennaio 2023 sono stati già due, uno a Palermo e una a Milano. Sono giovanissimi, appartengono a famiglie che li amano, scelgono l’indirizzo di studi che ritengono più adeguato a garantire loro un percorso professionale… eppure sono tanto disperati da dichiarare, prima di uccidersi, che la loro vita è «un fallimento». Sono pochi? Sì, per fortuna, ma sono la punta dell’iceberg di un malessere diffuso.
Emma Ruzzon, presidente del Consiglio degli studenti dell’Università di Padova, davanti al Ministro per l’Università e ad altre autorità ha tenuto un discorso accorato. Ha parlato di «sistema meritocentrico e competitivo» e ha puntato il dito contro il «mito dell’eccellenza», che sta esercitando una grave pressione psicologica sulla popolazione studentesca. Laura Parolin, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, dichiara: «Tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccezionali fosse l’unico segnale possibile di successo… Così non si mette in evidenza solo ciò che non funziona, ma anche ciò che è normale: ad esempio, soffrire un insuccesso e viverlo come un valore nel processo di crescita personale, perché permette di ripensare, ripartire, ricostruire…».
Si tratta di un normale turbamento dell’età giovanile, aggravato dall’attuale periodo di incertezze? È colpa del Covid, che ha privato questi ragazzi di quasi due anni di normale iter didattico? Probabilmente no. La realtà è che viviamo nella “società della performance”: l’essere competitivi è considerato il requisito essenziale per entrare nel mondo da veri adulti e puntare all’unica strada nota che porta alla felicità: prevalere, piazzarsi al primo posto, guadagnare il più possibile, non avere mai il senso di colpa di non aver “dato il massimo” per riuscirci.
Si pubblicano classifiche di scuole superiori che sarebbero migliori solo perché più difficili da frequentare, perché lì è più impegnativo imparare, perché lì è assicurata la massima severità nelle verifiche (ovviamente tutte basate su rigidi parametri numerici e statistici).
La domanda è doverosa: contiamo su una generazione di giovani capaci solo di rendere conto dell’abilità con cui assorbono le nozioni che vengono loro somministrate, o ci auguriamo che la formazione integrale della persona comprenda anche la capacità di gestire le proprie risorse, svilupparle nei tempi necessari, individuare tra di esse quelle che davvero costituiscono la vocazione di un essere umano unico e singolare?
La stessa ricerca pedagogica sta facendo passi importanti nel suggerire – magari a schiere di genitori ansiosi che i propri figli finiscano tagliati fuori dal mondo della carriera e del benessere – che una pagella “ideale” non è quella che contiene tutti 8 e 9, ma quella che, con un 9, alcuni 8 e poi qualche 7 e 6, descrive il ritratto di un giovane che sta scoprendo davvero chi è: per il bene suo e di tutta la società.
D’altra parte, capita di avere a che fare, nelle aziende, con perfetti funzionari della produzione… che non leggono neppure un libro, non sanno prendersi cura della loro salute mentale e della qualità delle loro relazioni, né si interessano di come va il mondo fuori dal loro compito professionale, da eseguire secondo procedure ben definite. Come valorizzare davvero i talenti di ciascuno (ascoltandolo, prima di riempirgli la mente in base a schemi di presunta efficienza), come sviluppare le “competenze relazionali”, quelle comunicative, quelle creative, quelle psicologiche, umane, spirituali in un sistema formativo che sa misurare soltanto le risposte a test fissati da regole burocratiche?
Non si tratta di trascurare il senso di responsabilità e neppure di sminuire il piacere di fare il proprio dovere. La questione è un’altra: dobbiamo interrogarci su cosa significa formare un adulto e per quale visione del mondo. Sforniamo diplomati e laureati, li inseriamo nel sistema produttivo… e il mondo va sempre peggio. Vale la pena vivere nell’angoscia dell’eccellenza, finendo per peggiorare le storture di una società dove l’umanità, la solidarietà, l’ascolto, l’accoglienza, la bellezza hanno troppo poco spazio?