Il caso inglese e la legge italiana. No all’accanimento ma in modo intelligente
I recenti fatti inglesi, la vicenda dei piccoli Alfie Evans e Charlie Gard, bambini con grave danno cerebrale per i quali è stato disposto di sospendere le cure ventilatorie e l’alimentazione, devono far riflettere il mondo medico. Infatti, qui non risulta che si sia davanti a un dolore intrattabile, né a uno stato di fine-vita. Siamo invece di fronte a un bambino in grave stato di danno cerebrale, dove per un principio di proporzionalità è inutile introdurre nuovi ulteriori trattamenti terapeutici, ma dove non si può non capire che sospendere la ventilazione significa indurre la morte.
La situazione legale ed etica in Italia non permette un tipo di decisioni del genere, e lo apprezziamo, perché i casi inglesi sembrano andare oltre il semplice evitare l’accanimento terapeutico, cosa che viene garantita in Italia. Si parla di accanimento terapeutico, infatti, quando è presente una delle seguenti condizioni: proseguire con trattamenti insopportabili o che lasciano uno stato di fondo di dolore intrattabile; insistere con terapie inutili (per esempio quando la morte è improcrastinabile); attuare mezzi sproporzionati al paziente (per esempio in un paziente decerebrato un trapianto di cuore o una dialisi o un’ulteriore rianimazione dopo arresto cardiaco).
Anche la recente legge 219 «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento» prevede che le «disposizioni anticipate di trattamento» valgono solo per i maggiorenni (articolo 4): e, mentre il maggiorenne può chiedere per se stesso la sospensione delle cure senza necessità di particolare motivazione – e questo ci lascia sempre molto perplessi – nel caso del minore il genitore può chiedere la sospensione delle cure solo «avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore» (art. 3), quindi non si possono sospendere le cure senza che queste non siano state palesemente dichiarate contrarie alla sua salute e alla sua vita.
Qui ben si integra il documento finale dell’ultimo congresso della Società Italiana di Neonatologia in cui si spiega citando le lineeguida sulle cure palliative redatte dal Gruppo di Studio sul Dolore, che la legislazione italiana (legge 194 del 1978) non consente di astenersi dall’intraprendere la rianimazione, o di sospenderla, sulla base di valutazioni in ordine alla qualità o al valore della vita. Si potrebbe infatti pensare che la previsione di una grave disabilità sia condizione sufficiente per interrompere le cure, magari perché i genitori non riescono a reggere l’impatto del trauma o perché si pensa che la vita con una grave disabilità sia invivibile.
In questo, valgono le parole del Comitato nazionale di Bioetica del 2008 che proprio in questo ambito spiegava: «È da ritenere alla stregua di un principio bioetico (...) che un trattamento che prolunghi la sopravvivenza di un disabile non possa mai essere definito futile, per il solo fatto che si rivela capace di prolungare la sua vita, anche se qualificabile da alcuni come «di qualità bassa». Ecco allora che, come abbiamo rimarcato più volte, bisogna evitare l’accanimento terapeutico; lo dobbiamo evitare certamente, ma in maniera intelligente, cioè individuandolo laddove incorrono oggettivamente e non potenzialmente o ipoteticamente le condizioni di un dolore intollerabile o di mancanza di strumenti atti a posticipare la morte.
A differenza di quanto avviene per l’adulto, nel caso del minore i criteri per sospendere le cure non cambiano e come sanciscono i neonatologi nel loro documento, «quando ciò non è possibile e il piccolo ha la speranza di sopravvivere solo pochi giorni, è opportuno adottare le cure palliative (Comfort care), una pratica che consiste in un percorso di accompagnamento e preparazione della famiglia alla morte del neonato». Tutto questo dopo seri accertamenti, e una diagnosi di fine-vita irreversibile.