Attacchi a chi cura. Medici e malati Nessuno tocchi Ippocrate
Arrivano notizie di aggressioni ai medici delle ambulanze o del Pronto Soccorso o del reparto psichiatrico. Tre aggressioni in due giorni. Tutti ci chiediamo perché, l’assistenza medica ci riguarda tutti. Non troviamo nessuna giustificazione, al massimo possiamo trovare qualche spiegazione. «Questo è un tempo di forte tensione sociale – spiega un medico – le famiglie dei malati si sentono in guerra, e vedono i medici come la controparte». Sì, c’è questa frustrazione, di aspettare la salvezza e non vederla arrivare, di puntare su un alleato e vedere che non vince con noi e per noi: i casi di aggressione ai medici si verificano infatti specialmente quando il malato (nostro parente) è appena morto, quindi sono anche una crisi aggressiva per la nostra impotenza di fronte alla morte. E due casi riguardano malattie psichiatriche, frustranti per i famigliari e per i medici.
Ma io credo (esprimo un pensiero personale, del quale sono fortemente convinto, ma non pretendo di interpretare il pensiero del giornale) che c’entri molto anche il modo in cui il medico comunica o non comunica la sorte del paziente. C’è il caso di famigliari che erano andati a trovare il parente e l’han trovato morto, senza essere stati avvertiti. Sulla difficoltà di comunicazione tra medici e famigliari ho dei ricordi personali lancinanti. Una mia parente era ricoverata, vado a sentire come sta, il medico che l’ha in cura mi fulmina con questa risposta, pronunciata con lunghe pause, non per addolcire il messaggio ma per evidenziarlo: «Certamente / questa malattia / ucciderà / la signora entro breve tempo».
È stato non come se la malattia, ma il medico uccidesse la mia parente. Sia chiaro: il medico faceva il suo dovere, che gl’impone di dire la verità. Lui aveva ragione, e io avevo torto. Ma avrei preferito che mi dicesse: «È possibile fare ben poco, ma noi faremo l’impossibile ». Mi sarei sentito amato. Avrei sentito la mia parente amata. Mi sarebbe bastato. Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità e grande oncologo, una volta mi ha risposto che «Sì, i pazienti si curano con la speranza». Se tu gli togli la speranza, li fai morire. Ho già raccontato quest’aneddoto, l’ho messo anche in un libro, ma non riesco a liberarmene. Chiedo scusa. Ci sono ospedali poco attrezzati, ma dove i malati si sentono amati, e di questo e per questo sono grati. L’ospedale di Madre Teresa era così. La prima medicina è l’amore e la comunicazione amorevole. Il medico si deve occupare del malato perché sta male e lui vuole liberarlo dal male. Sta scritto nel giuramento d’Ippocrate.
Che è un testo bellissimo, scritto prima del quarto secolo avanti Cristo, ma perfettamente cristiano. Il medico giura di curare ogni malato, uomo o donna, libero o schiavo, che oggi significherebbe immigrato o clandestino, ricco o povero, che oggi significherebbe mutuato o senza mutua, di farlo vivere e non farlo morire, nemmeno se lui lo chiede, e similmente di non dare un farmaco abortivo a nessuna donna, neanche se lei lo vuole. Il rapporto malato-medico è il rapporto tra chi sta male e chi può farlo stare meglio. Vedo che è nata l’associazione 'Nessuno tocchi Ippocrate', che protegge i medici da coloro che li aggrediscono.
È assurdo che debba esistere un’associazione del genere. Proteggere chi lavora per alleviare o eliminare le sofferenze è un compito dello Stato, non va rimesso ai privati o alle associazioni. Io credo che le violenze sui medici nascano dalla disperazione combinata con l’ignoranza. Disperazione perché un tuo parente sta male e non guarisce o muore, ignoranza perché non sai che i medici fanno tutto ma di più non possono. Picchiarli non è un diritto, è una colpa. Sono anche d’accordo che a controllare questo lavoro delicato e necessario e rischioso ci dovrebb’essere l’occhio delle telecamere. Cioè il nostro occhio. Il medico si sentirebbe vigilato e protetto. Basterebbe.