Valeria, suo padre e le altre vittime. Nessuno finga di non vedere
Oscar Alberto Martinez era sicuro di farcela: 25 anni, due spalle possenti, e addosso la forza della disperazione: che cosa ci voleva a prendere sulle spalle la sua bambina Valeria, due anni, forse dodici chili di peso? Uno scricciolo che il padre si era legato alle spalle, per sicurezza, con una maglietta. Il braccio della piccola gli cingeva il collo. Forse Valeria non aveva nemmeno paura a varcare il Rio Grande, tra il Messico e il Texas, in groppa a suo padre. Forse, pensava a un gioco.
Ma quel passaggio era l’unica salvezza, a meno di pagare 5.000 dollari per una lancia, dopo giorni in cui la famiglia salvadoregna era bloccata al confine del Messico. Chi c’era ha testimoniato che Oscar Alberto ha depositato la bambina in salvo, in territorio statunitense, e si è ributtato indietro a prendere la moglie. Ma Valeria, spaventata, lo ha seguito in acqua. Una corrente, la stretta dell’uomo manca il corpo della bambina, ma non l’abbandona. Giacciono in due ora, supini, nel fango, nella foto di una reporter che percuote l’America, da ogni tg di ogni televisione.
Perché una cosa è sapere che 286 migranti sono morti tra Messico e Usa nel 2018, e un altro è vedere solo due di questi poveretti immoti, un padre e la sua bambina che ancora gli cinge fiduciosa il collo. Certe volte la foto di un giornalista audace ci scuote: 286 è un numero astratto, quei due abbracciati nella morte somigliano invece a milioni di padri e figli come noi. L’umana immedesimazione scatta nel rapporto uno a uno: lì, quando vedi che sono genitori come te, con bambini come i tuoi, non puoi sfuggire, non puoi non vedere che c’è qualcosa di radicalmente sbagliato nello sbarrare, nell’alzare muri ciechi, o nel chiudere a prescindere i porti.
E, dunque, s’ indigna l’America e non solo per quella foto. Come accadde nel 2015 con Alan, il piccolo annegato e ritrovato su una spiaggia turca. Anche allora la foto percorse il mondo e destò molta emozione, e anche un principio di mobilitazione in aiuto ai profughi. Ma tutto si esaurì presto. Immagini come quelle dal Rio Grande o di Alan sono punte di iceberg che ogni tanto emergono, da una marea di muti e tragici destini. Noi non vediamo i morti di sete nel Sahara, i deboli abbandonati dalle carovane, quelli che cedono nelle prigioni libiche, coloro che salpano dalla Libia e non risultano poi approdati in alcun porto. La rivista "Internazionale" a inizio anno riportava le sorti di migliaia di migranti scomparsi nel viaggio verso l’Europa in questi anni, documentate dalla Ong United. C’era, fra mille, la storia di 5 adolescenti senegalesi salpati su un gommone dalla Libia nell’agosto del ’17, qui e là avvistati, poi spariti nel nulla, in giorni di brutto mare. Immaginatevi quei ragazzini decisi, certi di farcela, immaginatevi il loro peregrinare, perdere la rotta, finire l’acqua da bere, scrutare ormai senza speranze l’orizzonte vuoto. È una foto che ci rovinerebbe la sera, su un tg, quella dei naufraghi dell’età dei nostri figli, portati via dal mare. Ma nessuno ha potuto scattarla. E dunque, come nulla fosse accaduto. Benché sappiamo quanto facilmente si muoia sulle grandi linee migratorie. Nei cassoni dei Tir, soffocati, o sui tetti dei treni che dalla Francia vanno verso la Manica: quanti ragazzi sono caduti folgorati.
Sospettiamo, e la foto dal Rio Grande tenacemente insiste in questo senso, che accada ogni giorno e sia tragico anche ciò che non è giornalisticamente testimoniato. Ma, passata la commozione del momento, non stiamo forse, e in non pochi, scegliendo di non sapere? Perché il problema è enorme, perché "noi che ci possiamo fare", o, addirittura, perché nei miserabili delle barche bloccate al largo dalle nostre acque molti di noi vedono degli "invasori".
Ma se davvero l’Occidente, tacitamente o persino polemicamente, scegliesse di fare finta di non vedere, più di un governante si sentirebbe autorizzato ad alzare muri, aprire prigioni, decidere deportazioni. In un compiacente distratto silenzio prenderebbe forma un’ostilità che traccia nuovi confini di dignità umana.
Venti giorni fa era l’anniversario del D Day, lo sbarco in Normandia di britannici e Alleati per liberare l’Europa dal Terzo Reich nazista. Sbalorditivi documentari testimoniano come giovani americani o canadesi di 20 anni si gettavano nelle acque della Manica, votati alla morte, senza esitazioni. Per liberare popoli nemmeno conosciuti. Guardavo con commozione e stupore quelle giovani facce. Che cosa, quale solidarietà o senso d’onore li spingeva a dare la vita per uomini e donne mai visti? Oggi quello spirito sembra mancarci. Poche perseguitate Ong battono il Mediterraneo, osteggiate, respinte come navi di galeotti. Per mare noi invece, ora che è estate, ci si affaccia e si va in crociera, a vela i più fortunati. Si incrociano mai, le rotte nostre e quelle degli 'altri'? Se si incrociano, ci si guarda da lontano forse, come fra umanità diverse, ciascuna incanalata sul binario del proprio privato destino. Ma non è così. Non è così.