Migranti. Chi c'era e chi no alla sepoltura delle 21 vittime del naufragio in Calabria
Non c’era nessuno ad accompagnare nella sepoltura le 21 vittime senza nome del naufragio del 17 giugno al largo delle coste calabresi. Anzi c’erano i “soliti”, i soliti che salvano, soccorrono, accolgono, accompagnano, consolano. Lo fanno sempre, ci sono sempre, questa volta anche nel tristissimo e drammatico tentativo di riconoscere le salme. Appena 15 sulle 36 recuperate. Sono le donne e gli uomini delle Caritas e degli uffici Migrantes delle diocesi di Reggio Calabria-Bova e Locri-Gerace, del Coordinamento diocesano sbarchi di Reggio, della Croce Rossa, della Protezione civile, delle Forze dell’ordine, in particolare la Guardia costiera, della Prefettura. Volontari, Chiesa, Istituzioni.
Loro c’erano come ci sono sempre. Questa volta a piangere e pregare con l’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, don Fortunato Morrone, e il responsabile del centro culturale islamico di Reggio Calabria, Hassan El Mazi. Davanti a quelle bare, una più piccola e bianca, un’altra più grande per ospitare una mamma col suo piccolo ancora non nato, morto senza conoscere la nuova terra verso la quale la mamma lo stava portando, terra di speranza e libertà per chi fugge da terre di violenza e intolleranza.
Su ogni bara un biglietto con un numero e un’unica parola. “Salma”. Scene già viste dopo i naufragi di Cutro e Lampedusa, ma qui è diverso. Questa volta è diverso. È diverso il luogo della sepoltura, il cimitero di Armo fortemente voluto dalla Chiesa reggina e finanziato dalla Caritas italiana, per accogliere i migranti morti nei naufragi e i poveri della città. Al centro un piccolo monumento che ricorda la famosa “porta di Lampedusa”, ma mentre nell’isola è una porta compiuta, perché le persone ce l’hanno fatta, qui la porta è spezzata, come le vite spezzate di chi non ce l’ha fatta.
C’è poi un ulivo, albero che rappresenta tutti i Paesi mediterranei. E ancora le immagini dell’Africa e dell’Europa e la riproduzione della colonna che ricorda la prima predicazione a Reggio Calabria di San Paolo, anche lui migrante. E poi una grande tavola in pietra col passo della Genesi in cui Abramo seppellisce Sara accolto dagli Ittiti. Bellissimi simboli di accoglienza, di solidarietà, di umanità. Sullo sfondo le montagne calabresi e un limpido cielo azzurro. Davvero una bella giornata per accompagnare i ventuno che non ce l’hanno fatta a sbarcare su questa splendida terra.
«Questa – ha sottolineato la prefetta di Reggio Calabria, Clara Vaccaro – è una vicenda nostra che viviamo in questa terra». Ha ragione, questa è una vicenda solo calabrese. Lei è l’unica rappresentante nazionale. Nessun ministro o sottosegretario, nessun politico nazionale o regionale, di qualunque schieramento. Neanche una presenza di parole, nessun commento, nessun comunicato per queste 21 persone. Roma è lontana, distratta. «Forse è meglio così, si sono evitate passerelle», ci dice una volontaria che da anni accoglie chi sbarca in Calabria. Ma è la conferma di quanto denunciato dal vescovo di Locri-Gerace, don Franco Oliva parlando di «un naufragio di serie B, che ha visto interessati pochi politici». Lo ha ripetuto don Rigobert Elangui, direttore dell’Ufficio Migrantes della stessa diocesi.
«Rispetto a Lampedusa e a Cutro, nel caso di Roccella c’è stato un silenzio istituzionale spaventoso». Non quello dei “soliti”, presenti sempre e anche oggi. «Un atto di resistenza - lo definisce l’arcivescovo, don Fortunato Morrone - che, come umanità, compiamo per non dimenticare che i migranti sono persone e che la loro vita spezzata è una tragedia. Il nostro compito è quello di essere presenti lì dove c’è sofferenza».
Presenti, appunto, coi fatti dell’accoglienza, della condivisione, dell’inclusione. Ma anche nel dolore, nella pietà, nella consolazione. Oggi nel rito della sepoltura, nelle scorse settimane accanto ai familiari delle tante vittime e dei pochi sopravvissuti, tra speranza e dramma. Davvero una resistenza al dolore, all’intolleranza, alla violenza. Ma soprattutto una presenza, quella che in tanti hanno preferito evitare. Perché fa paura, è scomodo, confrontarsi con queste bare e con chi le accompagna.