Opinioni

L’orgoglio del male. I teppisti di Lignano e la scomparsa della vergogna

Marina Corradi domenica 30 settembre 2018

Il video ora sul Web appare schermato, ma ciò che ne resta turba più che se le immagini fossero nette. Due ombre si accaniscono con violenza contro una terza figura. Botte, calci, «dammi il tuo telefono e i tuoi soldi, muoviti, ti uccido».

E botte ancora. La vittima balbetta: «Dammi un minuto, fra’, un minuto...». Tonfi, schiaffi. Quello che si vede netto pure nella frammentazione delle immagini, ora, è il colore porpora del sangue, sul volto dello sconosciuto. Frattura della mandibola: bisogna picchiare forte, per spezzare la mandibola a un ragazzo. Perché erano tutti e tre minorenni, su una spiaggia di Lignano, la notte dello scorso 15 luglio. I due aggressori, e un diciassettenne.

L’hanno massacrato per il cellulare e il portafogli, bottino cento euro. E fin qui sarebbe una brutale rapina come ne accadono tante, purtroppo, anche fra giovanissimi. Ciò che però colpisce è che a girare il video e a metterlo sui social siano stati gli stessi aggressori. Come un trofeo, come una gloriosa memoria di qualcosa di cui andare fieri. Proprio grazie al video, benché i volti non fossero riconoscibili, la Polizia postale è riuscita a rintracciare i due, che ora sono accusati di rapina e lesioni. È quel filmarsi, e addirittura diffondere – rischiando di essere individuati – le immagini sui social, che spaventa. I rapinatori e i violenti sono sempre esistiti.

Ma, dopo, si nascondevano: per la semplice ragionevolezza di non voler essere catturati, o, magari, per vergogna. O perfino per rimorso. L’assassino di Delitto e castigo è incalzato dalla sua coscienza. Ha ucciso per denaro, ma il sangue versato non gli dà pace. I piccoli teppisti di Lignano che massacrano un coetaneo per pochi euro, invece, ne riprendono freddamente le urla col cellulare, e poi mettono la loro opera in rete. Senza vergogna. Anzi, vantandosi di ciò che hanno fatto. Desiderano che almeno gli amici possano riconoscerli, in quelle ombre. Non è stata, quella notte d’estate in spiaggia, un’ebbrezza feroce da seppellire nella memoria, il giorno dopo; qualcosa che la mattina, incontrando lo sguardo di tua madre, ti fa distogliere gli occhi. Gli occhi di quei due vogliono altri occhi, anzi, puntati sui loro pugni, sui loro insulti.

E non sono nemmeno i primi. Altri, giovanissimi, hanno già filmato violenze di gruppo. Come se, avendo fra le mani uno strumento che solo premendo con un dito registra ciò che accade, si facesse strada una strana ansia: l’orgoglio del male. Non solo farlo, ma farlo vedere. Il che è come uno sfiorare una barriera antica. Il male, anche il peggiore, c’è sempre stato, dai tempi di Caino. Immortalarlo, andarne fieri, mostrarlo agli amici è un di più, che turba. Quasi il segno di una bussola smarrita, impazzito l’ago che divide il bene dal male.

È solo quel cellulare in mano, che apre una possibilità che non c’era? O una smemoratezza più ampia si riflette nel gesto apparentemente assurdo di due ragazzini? La generazione che oggi è vecchia sa che, se si aveva qualcosa sulla coscienza, si evitava di guardare negli occhi i genitori, come sentendo di averli traditi. Chi mette in rete il video di una violenza compiuta non ha questo turbamento. Come se non avesse tradito nessuno. O come se nessuno gli avesse credibilmente trasmesso la coscienza del bene e del male. Fossi la madre o il padre di quei due, forse sarei più sgomenta ancora dell’orgoglio del video, che della ferocia delle botte. Mi direi: allora non ti ho dato proprio niente.

Fossero figli miei, quei due ragazzini, li guarderei come per la prima volta: chiedendomi cosa sono io, e cosa ho fatto di loro. Credo anche che, disperatamente, li abbraccerei. Tacitamente chiedendo perdono. Poi, se potessi, li manderei a lavorare duramente, a faticare su una terra aspra. Pregando che in quella fatica e povertà ritorni loro la memoria di un Dio che ci ha fatti, che ci conosce e ci ama. E, con quella memoria, la domanda di un bene che magari non sappiamo fare: ma cui almeno, come viandanti, tuttavia tendiamo.