Digiuno e preghiera nelle diocesi campane. Nella Terra dei fuochi per amore del popolo
«Chi è don Peppe?», chiese l’uomo che, entrato improvvisamente nella chiesa di San Nicola a Casal di Principe, alla risposta: «Sono io don Peppe», gli sparò contro quattro colpi di pistola. Erano le 7.30 del 19 marzo 1994. Moriva così, assassinato dalla camorra, don Giuseppe Diana, il parroco di quella chiesa, nel giorno del suo onomastico. Saranno poco più in là, nella primavera del prossimo anno, i 25 anni del sacrificio, ma la terra del martirio non può attendere il calendario delle ricorrenze.
Qui il sangue, non solo da una pistola puntata contro, è continuato a scorrere dalle molte vene di una terra intossicata e avvelenata dai rifiuti, devastata da interessi e sopraffazioni, umiliata e sporcata da una non meno colpevole incuria. Un fronte di attacco tanto vasto quanto agguerrito e feroce, da far pensare che una tale offensiva – con i roghi tossici come terribile segno di un requiem blasfemo – rappresenti solo il bersaglio più largo di quello che è prima di tutto un attacco all’uomo.
Una terra infestata da tanti mali, alla fine non dà pane, se non amaro, per gli stenti di una vita sempre grama, o avvelenato dalla farina guasta delle troppe contaminazioni. Fanno paura i dati, sempre in rialzo, per tumori, malattie e morti, vittime spesso i bambini. Nessuno tra chi ha avvertito la trama di questo inganno è rimasto a guardare; ma nessuno come la Chiesa si è spinta oltre, lastricando di testimonianze e denunce ogni passo del proprio cammino, facendosi voce anche dei più tiepidi, stimolando, come più non poteva, organismi pubblici ancora distratti e non sempre consapevoli del dramma in corso.
Nella terra dei fuochi la Chiesa non solo si è sporcata ma è arrivata a bruciarsi le mani, a condividere fino in fondo – non semplicemente a stare vicino – le sorti di un popolo reso ancora più forte dal petto in fuori, accanto all’altare, di don Diana. Anche sulla scia della sua testimonianza, l’intera comunità ecclesiale si è fatta incessante pulpito della straordinaria predicazione di papa Francesco sulla cura del creato.
È stata e continua a essere un costante segno di speranza. Ma anche per una mobilitazione senza tregua – non solo registrata ma appoggiata in ogni passo da 'Avvenire' – può arrivare tuttavia il momento di un salto di tono: quello che preghiera e digiuno insieme possono assicurare, mettendo in campo la forza di un richiamo biblico evocato sempre più spesso dai papi della modernità – si pensi a Giovanni Paolo II e Francesco – di fronte a pericoli di conflitti e di guerre. Stavolta a chiamare alla preghiera e al digiuno – nella giornata di oggi, giovedì 29 novembre – sono i quattro pastori delle diocesi – Aversa, Caserta, Acerra e Nola – sfregiate da quell’insulto, Terra dei fuochi, oltre due milioni di abitanti sparsi in novanta comuni tra il circondario a nord di Napoli e i centri che da Caserta quasi si saldano all’area partenopea.
Una distesa di antica e prospera bellezza, disseminata dai resti – ciminiere spente, capannoni abbandonati, viadotti per traffici di rifiuti più che per le auto – di un’industrializzazione fallita, cavallo di Troia, di una successiva rapina a piene mani di tutto il territorio. Quattro diocesi, una sola voce. Digiuno e preghiera sono ora le parole antiche e nuove di una Chiesa non solo unita, ma proiettata profeticamente in avanti anche nella scelta degli strumenti da mettere in campo.
«Non alzeremo il volume di roboanti strumenti di amplificazione», hanno scritto i vescovi in preparazione alla Giornata, pur ricordando che nessun grido, dei tanti lanciati per denuncia e testimonianza, si è mai spento. Ma l’urgenza è quella di «far sentire a tutta la nostra società, la voce potente dei figli di Dio che chiedono rispetto per la terra e vogliono offrire amore e fraternità a tutta l’umanità». Preghiera e digiuno quindi come risposta estrema per i momenti forti: è tale infatti quello che vive la chiesa campana nel suo insieme e, nel ricordo di don Diana, si fa vivo il legame con la Chiesa del Mezzogiorno. Sempre più, come per la Lettera collettiva dei vescovi del Sud nell’Ottantadue e questa per i 25 anni dell’uccisione del sacerdote di Casal di Principe, «Per amore del mio popolo non tacerò» è diventata la voce antica di un tempo nuovo di coraggio e testimonianza.