Opinioni

Editoriale. Nella stagione del pensiero spento, Trieste va in controtendenza

Andrea Riccardi lunedì 8 luglio 2024

Nel 1967, alla vigilia di grandi sconvolgimenti, Paolo VI concluse l’enciclica, Populorum progressio, con un accorato invito: «E se è vero che il mondo soffre per mancanza di pensiero, Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani… tutti gli uomini di buona volontà». Nascevano nuovi Stati, il Sud povero e indipendente affrontava il Nord ricco: che mondo sarebbe stato? La Chiesa, spesso accusata credere di avere la verità in tasca, convocava tutti all’insegna del detto evangelico: “cercate e troverete”. Dialogare, discutere, cercare riaccende il pensiero sul futuro. La Chiesa - non da oggi - crede in spazi, gratuiti e costruttivi, di riflessione sulla società e le istituzioni. Cinquanta Settimane Sociali mostrano la ricerca intellettuale del cattolicesimo italiano dal 1907.
Oggi il mondo soffre per mancanza di pensiero. Ma l’evento di Trieste è in controtendenza: è andato al cuore della democrazia. In passato, nella “Repubblica dei partiti” (espressione di Pietro Scoppola), grande stagione democratica, nonostante le ombre, ogni partito coltivava intellettuali, testate di cultura politica, dibattiti culturali o ideologici. Poi è avvenuto il divorzio tra cultura e politica, mentre questa è stata attratta da televisione e social. Non più il tempo dei pensieri lunghi, di cui parlava Berlinguer. Siamo nell’ora del trionfo delle emozioni - scrive Dominique Moïssi, parlando di una società segnata da paura, collera e speranza.
La paura è cresciuta in Italia verso un mondo che pare fuori controllo: «Grande, terribile e complicato» - diceva Gramsci. Lo straniero, il rifugiato, il profugo sembrano figure di un futuro invasivo, seppure necessari per la crisi demografica. C’è collera nelle vene del Paese: quella silenziosa dei giovani incerti sul domani (che genera tanti esodi dall’Italia), dei ceti medi impoveriti, di un Mezzogiorno in difficoltà, di tanti poveri alle prese con una vita cattiva… La collera spesso è silenziosa, ma profonda. Il rifiuto di votare esprime il divorzio, consolidato per taluni, da una Repubblica avvertita matrigna e lontana. Forse solo il populismo canalizza le emozioni nell’effimera coscienza di individuare un nemico e un capo.
La nostra democrazia ha bisogno di meno liti e di più riflessione. La democrazia preparata nella lotta della Resistenza al nazifascismo; forgiata nello studio e nella cultura sulla scia delle indicazioni di Montini negli anni Trenta; auspicata da italiani, memori della tradizione liberale, che resistevano alle chimere del regime. Lo strazio della guerra e la resistenza hanno portato nella Costituente, frammentata come partiti, uno spirito dialogico per creare l’architettura della democrazia, esprimendo il senso di un destino comune. Questa Costituzione ha garantito la flessibilità della democrazia, attraverso la Guerra fredda, i conflitti sociali, il terrorismo, la crisi morale, la fine dei partiti storici e tant’altro. Dalla democrazia dei forti soggetti partitici si è passati a quella odierna di tanti individui, spesso fluttuanti. Ogni architettura va rivista, ma - ha auspicato il cardinale Matteo Zuppi con una sapienza che viene dalla storia della Chiesa - la riforma deve avvenire in un clima il più possibile condiviso.
Andare al cuore della democrazia è chiedersi in che mondo siamo e quale sia la nostra società. Sono tramontate le speranza dell’89, con la caduta del Muro, quando sembrava che l’allargamento del mercato avrebbe diffuso le democrazie ovunque. Un po’ fu così. Ma ora molto meno, mentre si rafforza l’alleanza tra capitalismo e autoritarismo e la corruzione corrode alcuni Stati. La nostra democrazia italiana è un valore nel mondo di oggi, ancorata com’è a quelle dell’Unione Europea.
Quest’Italia dei “sonnambuli” - dice il Censis - ha bisogno di un rafforzamento della democrazia e del pensiero ad essa connesso. Si deve imparare di nuovo a confrontarsi. Lo deve fare un Paese, che integra tanti non italiani. In questo mondo di guerre, restringimenti delle libertà, cancellazione della pace dall’agenda internazionale, c’è un orgoglio che sentiamo molto: essere italiani, cittadini di un Paese di pace e che lavora per la pace, ma anche essere democratici. L’orgoglio di essere italiani e democratici. La democrazia compenetra liberamente le diversità, pur profonde, nel senso di un destino comune, quello di una patria. Lo si capisce nei momenti duri. Nel 2020, Francesco in piena pandemia disse: «Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda». La barca della democrazia è il vascello migliore con cui navigare nel mare agitato della storia. È il nostro orgoglio: la speranza oltre la paura e la collera.