Opinioni

Economia narrativa. Nella scala sociale di Fontamara miseria e redenzione dei cafoni

Luigino Bruni domenica 20 ottobre 2024

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«E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: – In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe Torlonia. Poi vengono i cani delle guardie del Principe Torlonia. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ed è finito». (1947, p. 34). Questo è forse il brano più noto di Ignazio Silone, perché è la sintesi del suo spirito e possiede una straordinaria forza lirica ed etica. Quel Dio immaginato un gradino sopra i Torlonia finiva, suo malgrado, per legittimare e sacralizzare quella gerarchia tremenda, ponendo il suo sgabello in cima ad una piramide più alta e sbagliata di quella dei faraoni, senza neanche poter dire: “non nel mio nome”. Il cristianesimo era arrivato da diciannove secoli sulla terra, ma si era fermato a Eboli o ad Avezzano, senza raggiungere le montagne, le campagne, i poveri, i cafoni che non sapevano che il Dio di Gesù non stava seduto sulla stessa scala dei Torlonia. I cafoni non conoscevano il Dio diverso del vangelo, perché troppo velato e nascosto dalle teologie della Controriforma e dal latinorum dei preti. Eppure qualche volta l’hanno incontrato, soprattutto in fondo ai loro dolori, dove, sotto le sembianze della Madonna, degli angeli o dei santi li aveva visitati, toccati e consolati - non solo lo Spirito ma tutta la Trinità è “padre dei poveri”, perché se non lo fosse anche il Dio cristiano sarebbe solo uno dei tanti idoli divoratori dei miseri.

La religione è un grande tema del romanzo. Nel primo capitolo, Michele Zompa racconta un suo sogno a Marietta e “al forestiero”: «Ho visto il papa discutere con [Gesù] Crocifisso. Il Crocifisso diceva: per festeggiare questa pace [i Patti Lateranensi] sarebbe bene distribuire la terra del Fucino ai cafoni che la coltivano ed anche ai poveri cafoni di Fontamara… E il papa rispondeva: - Signore, il principe Torlonia non vorrà mica. E il principe è un buon cristiano. Il Crocifisso diceva: - Per festeggiare questa pace sarebbe bene dispensare i cafoni dal pagare le tasse. E il papa rispondeva: - Signore, il governo non vorrà. E i governanti sono anch’essi buoni cristiani… Allora il papa gli propose: - Signore, andiamo sul posto. Forse sarà possibile fare qualche cosa per i cafoni che non dispiaccia né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi». Così i due partirono verso la Marsica, e «il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi e li lanciò sulle case dei poveri dicendo: - Prendete, o figli amatissimi, prendete e grattatevi» (pp. 31-32). Il parroco proibì a Michele di raccontare il suo sogno. Il mondo cattolico dovrebbe presto iniziare un cammino di purificazione della memoria, perché se è vero che nei suoi carismi sociali tanto ha fatto per alleviare la sorte delle vittime e dei poveri, è altrettanto vero che per non dispiacere “né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi” troppe volte la chiesa ha associato il volto del suo Dio a quello del potere e dei forti, magari chiedendo loro di aiutare i poveri. Il Cristianesimo, moribondo in Occidente, potrà sperare ancora in una primavera se sarà capace di ribaltare la scala di Silone, e annunciare un Cristo che si trova al di sotto dei cafoni e che da lì scompagina ogni giorno i piani dei forti e dei grandi - “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.

Nella scala sociale di Silone c’è poi un dettaglio essenziale. In tutti i luoghi e in tutti i tempi non si passa regolarmente e direttamente dai “cani delle guardie” ai “cafoni”. No: in mezzo ci sono tre spazi vuoti. Dopo i cani ci sono tre fogli bianchi – “poi nulla, poi ancora nulla, poi ancora nulla” –. Nella scala verso l’alto, dopo il suolo dove si trovano i cafoni mancano tre gradini, c’è un buco tre volte più largo della distanza che separa le guardie dai loro cani. Importante e profetico è il riferimento ai cani, che oggi nella gerarchia della nostra morale perversa si trovano ben al di sopra dei migranti deportati dal nostro governo in Albania. Con il passare dei decenni lo spazio tra i cani e i cafoni è cresciuto molto, le pagine vuote da tre sono diventate dieci, cento, si sono moltiplicate e continuano a moltiplicarsi. In quella Italia di Silone, dove ancora era viva e attiva la pietà popolare, i cafoni abitavano negli stessi villaggi di tutti, erano visibili, si incontravano per strada, erano parte della stessa gente. Da quegli incroci di sguardi ancora orizzontali potevano nascere movimenti di liberazione, insieme a scrittori, artisti e poeti capaci di dar voce al “non ancora” del loro tempo. Oggi i cafoni non li vediamo più, li deportiamo all’estero, il capitalismo li ha nascosti alla vista e al cuore; la pietas cristiana l’abbiamo dimenticata e ridicolizzata nel giro di una generazione. I cafoni della terra sono sempre più dannati, non ci guardano e riguardano più nelle «nostre tiepide case» (Primo Levi) - dove sono, se ci sono, i nuovi Silone e Levi capaci di cantare il dolore infinito dei cafoni? Quel triplice salto di pagina segna il grande abisso che separa chi sta sopra da chi sta sotto, perché senza quel vuoto chi sta sotto non starebbe veramente sotto e chi sta sopra non starebbe veramente sopra. Quel vuoto tra i cani e i cafoni dice allora che l’abisso è invalicabile, che, per Silone ormai deluso anche dal comunismo, la miseria e il potere sono per sempre: circolano le élite, gira la giostra delle classi sociali, ma tra i cafoni e i Torlonia il solco resta insormontabile. Fino a quando? Oppure, per dirlo con le ultime parole di Fontamara: «Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto sangue, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione: che fare?» (p. 250).


L’epopea di Fontamara raggiunge il suo culmine drammatico nella triste e stupenda conclusione della storia di Berardo Viola. Berardo è un giovane forte, generoso, buono, con uno spiccato senso di giustizia sociale; anche per questo è la speranza di riscatto dei suoi compaesani. Nipote dell’ultimo brigante di Fontamara (assassinato dai piemontesi), Silone ce lo presenta così: «Aveva gli occhi buoni, aveva conservato da adulto gli occhi che aveva da ragazzo» (p. 89), che è forse la parola più bella che si possa dire di un adulto, se è vero che la buona fatica del vivere sta quasi tutta nell’arrivare alla fine con qualcosa degli occhi con i quali ci siamo giunti. Berardo aveva ereditato dal padre un pezzo di terra, lo aveva venduto per avere il denaro per emigrare in America, «ma prima d’imbarcarsi, una nuova legge sospese tutta l’emigrazione». Così rimase a Fontamara, senza terra e «come un cane sciolto dalla catena che non sa che farsene della libertà e si aggira disperato attorno al bene perduto». Ma, aggiunge Silone, «come può un uomo della terra rassegnarsi alla perdita della terra?» (p. 84). Perché «fra la terra e il contadino è una storia dura e seria… È una specie di sacramento».

Quindi aggiunge parole sulla terra tra le più belle della nostra letteratura, che solo un contadino può ancora capire: «Non basta comprarla, perché una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col sudore, con le lagrime, con i sospiri. Se hai terra, nelle notti di maltempo tu non riesci a dormire, perché non sai quello che sta succedendo alla tua terra» (p. 85). Berardo implora invano l’acquirente della sua terra, don Circostanza, di ridagliela indietro. Finalmente, riesce ad ottenere un pezzo di terra sulla montagna, tra le rocce, della «contrada dei serpenti». La lavora duramente - «O la montagna ammazza me, o io ammazzo la montagna» (p. 87) -, vi pianta del granoturco. Ma ci fu una forte alluvione, «venne giù la montagna», e «un’enorme fiumana d’acqua portò via il campicello di Berardo» (p. 88). E Silone si chiede: «Si può vincere contro il destino?» (p. 89), un destino che è il co-protagonista del romanzo. E per provare a sfidare ancora il destino, Berardo parte per Roma in cerca di lavoro.

Tra un ufficio di collocamento e l’altro, «al settimo giorno che eravamo a Roma non ci restavano più di quattro lire» (p. 216). Dopo tre giorni di digiuno, Berardo e il suo amico (la voce narrante) smisero di uscire dalla stanza, restarono fermi per la fame, distesi sul letto. Finché non vengono arrestati dai fascisti per un errore, scambiati per sovversivi sobillatori. Erano arrivati per lavorare, finirono in un carcere - ieri, e oggi. Ma è dentro quel carcere sbagliato che Berardo vive la sua resurrezione. Dice di essere lui «il solito sconosciuto», un ricercato accusato di diffondere «la stampa clandestina», ad incitare «gli operai a scioperare, i contadini a disubbidire» (p. 223), e con una bugia dice al commissario: «Il solito sconosciuto sono io» (p. 231). In quel carcere Berardo riesce a vincere il suo destino. Con un atto di sacrificio vicario si carica di una colpa che non ha, e riesce ad arrivare fino alla fine, non ritrattando nonostante le dure torture. Berardo sfugge al destino impresso alla sua vita fin dalla storia di suo nonno, donando la vita per una fedeltà misteriosa ai suoi ideali di giustizia. Il suo martirio laico riscatta Fontamara al culmine della sua sconfitta. E al termine di un libro dove il grande vincitore era stato proprio il destino, ci dice: siamo più grandi del nostro destino.

Anche se Silone non ci spiega perché Berardo da innocente si sia auto-incolpato, non è difficile vedere in lui una immagine del Cristo e della sua passione: «E se io muoio? - Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri». Le sue ultime parole: «Sarà qualche cosa di nuovo. Un esempio nuovo. Il principio di qualche cosa del tutto nuovo» (p. 238). Quel qualcosa di nuovo nel tempo maturerà in Silone, fino a fiorire suo ultimo capolavoro, L’avventura di un povero cristiano (del 1968). Cristo sta risorgendo anche oggi in Libia, in Albania, sui barconi, a Gaza, nel Congo, in Sudan, in Libano. Noi non lo sappiamo, non lo vediamo, non lo riconosciamo, perché lo cerchiamo nei sepolcri vuoti e non nei luoghi dei crocifissi. «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», fu il primo grido del Risorto.

(2-continua)