La Natività e la tempesta. Nella «sacca» del Covid e ancora quella domanda
Un martedì senza sole. Milano, 21 dicembre, pochi giorni a Natale. Un quartiere borghese, il supermercato alle dieci affollato. Gente molto nervosa che si fa largo spingendo il carrello come un trattore; urtano gli altri, 'ma stia attento!', 'si sposti!', un’aria acida fra le corsie traboccanti di merci.
Per la spesa per le cene di famiglia, è presto. Nei carrelli noti più detersivi che pandori, e pasta, e zucchero, e caffè, come si facesse scorta di beni essenziali. Molti clienti hanno i capelli bianchi, anziane coppie corrucciate. Colmano i sacchetti come per tranquillizzarsi: in casa, comunque, ci sarà da mangiare. Nessun lockdown è stato annunciato, eppure una tacita ansia sembra percorrere la popolazione più fragile. Questa variante Omicron, dicono, è davvero invasiva, e nelle farmacie non si può entrare, tanta è la coda di gente in cerca di un tampone. Così presunti o veri positivi peregrinano da una farmacia all’altra, sui mezzi. La gente tiene la mascherina alzata fino agli occhi. A sera in tv dicono che in un giorno sono raddoppiati i contagi, 30mila nelle ultime 24 ore, e ben 153 sono i morti.
Credevamo d’esserne quasi fuori, e rieccoci nella sacca del Covid. Contagiati, dicono, sono soprattutto i bambini, senza, grazie a Dio, conseguenze gravi. Ma le madri passano la mano sulla fronte del figlio, che scotta, e non sono del tutto tranquille. Non tranquille come due anni fa, quando bastava un antibiotico. Sono diventate, le mamme del Terzo millennio, di colpo vicine alle loro nonne e bisnonne, che della guarigione di un figlio non avevano certezza.
Ma com’è basso sulle case, questo cielo di dicembre. Al mercato, sulle bancarelle milanesi, una schiera di pupazzi di Babbo Natale, gnomi, befane, ma non un presepe. Di cosa è segno un Babbo Natale? Di abbondanza, di fortuna, forse. Basta però, oggi, sperare nella fortuna?
Quel presepe che qui manca invece, quale segno porta in sé. Il Figlio di Dio che nasce fra gli uomini, il Verbo che si fa Carne. ('Sì, ce lo raccontavano a scuola, al catechismo, una volta', risponderebbero i corrucciati signori con i carrelli pieni, al supermercato).
Ma dentro a un orizzonte di nuovo, dopo due anni, precario come non lo avremmo immaginato, cosa realmente può dare speranza? «Questo Natale, godetevelo», esorta dai muri di Milano una pubblicità, con il primo piano di un gigantesco prosciutto. Basta davvero quest’anno una raffinata cena, un vino eccellente? «Questo Natale, godetevelo»: non manca aspramente qualcosa?
Nello scoprire che non siamo, in realtà, padroni di niente, e che questa del Covid non è una guerra lampo ma di trincea, logorante e lunga, a cosa possiamo aggrapparci? A una buona stella, o al coraggio, perfino allo stoicismo: e poi, alla lunga, non si logorano quelle corde?
Il 21 dicembre declina presto, è il Solstizio d’inverno, cala la notte più lunga dell’anno – e sembra quasi che il buio pesi, denso, sulle case. Ma, da oggi, le giornate cominciano impercettibilmente ad allungarsi, si alza adagio l’arco del Sole sul nostro emisfero – fateci caso, già fra quindici giorni. La luce che rinasce dal grembo della notte più buia: i nostri avi contadini capivano bene il segno che è Natale. La promessa, il germoglio che è la nascita di quel Bambino. Lo capiamo ancora noi, italiani, battezzati, nella dolente fine dell’anno 2021?
Nella precarietà inconcepibile di questo Terzo millennio, mentre c’è chi fa prudentemente scorta di pasta, che benedizione sarebbe ritrovare in sé la memoria di che cos’è Natale: di chi nasce, a Natale. Uno che non lascia mai soli, uno che perdona e che abbraccia. Se, da sotto lo strato della dimenticanza, della leggenda, della nostra superbia da padroni riemergesse, inattesa, la memoria di una fede in troppi sommersa. Come se questa cupa burrasca ci ponesse, al fondo, una domanda.