Reportage. Nella povertà estrema di Haiti il dramma dei piccoli migranti
Una ragazzina fermata e imprigionata a Dajabón, in attesa di essere rimpatriata ad Haiti
«Nonna, sono Hamilton». Madeline non è riuscita ad ascoltare altro. Appena ha sentito la voce del nipote, scomparso cinque mesi prima, ha trasalito ed è svenuta. «Quando mi sono ripresa, mi sono ritrovata in terra, con il telefono in mano, incredula. L’avevo cercato tanto. Ho camminato e camminato...», racconta in creolo ai visitatori accomodati nel “patio”. La donna, di età indefinibile, chiama così il quadrato sterrato all’entrata della baracca in cui abita. Là ha disposto tre sedie di plastica, le uniche che ha. Una tenda separa la “veranda” improvvisata dalla casupola di compensato. Quando il vento la scosta, spunta un letto che occupa l’unica stanza quasi per intero. «Sa, qui dobbiamo arrangiarci », si scusa Madeline. “Qui” è la baraccopoli di Petit Anse, una delle tante che si aprono quasi a ridosso del lungomare di Cap Haitien, capitale di Haiti ai tempi della colonia, nel nord dell’isola.
La “perla dei Caraibi”, la definivano. Un barlume dell’antico splendore resiste nei palazzi del centro storico. Ma le facciate, dai colori caldi, sono crepate e pericolanti. Eppure il sisma che, il 12 gennaio 2010, ha polverizzato Port-au-Prince, uccidendo in un solo colpo 230mila persone, a Cap Haitien non c’è stato. «È il terremoto quotidiano dell’assenza di servizi pubblici », afferma Kenel mentre indica i cumuli di immondizia sparsi perfino sul litorale. I viottoli di Petit Anse, tanto stretti da dover passare in fila indiana, sono impastati di rifiuti e acque reflue. Là vivono migliaia dei 200mila abitanti di Cap Haitien, nessuno sa il numero esatto. Quasi tutti sono disoccupati e vanno avanti con lavoretti saltuari. Madeleine, per sopravvivere, percorre in tap tap – gli scassatissimi bus locali – le almeno due ore che separano la città della frontiera di Ouanaminthe per acquistare al mercato qualcosa da rivendere. Un giorno di agosto del 2018, Hamilton ha percorso la stessa strada senza fare ritorno. A 15 anni, il ragazzino – senza padre, orfano di madre a sette anni, allevato da Madeline – ha deciso di giocarsi il tutto per tutto pur di avere un’opportunità. E, così, ha attraversato il ponte sulla Riviere du Massacre ed è approdato a Dejabón, gemella di Ounamenthe, dal lato domenicano, il più trafficato dei quattro valichi ufficiali a cui si sommano decine di punti di passaggio clandestini.
Sono in tanti a cercare di fuggire dal Paese più povero dell’emisfero occidentale, dove la disoccupazione sfiora il 70 per cento e i tre quarti della popolazione sopravvive con meno di due dollari al giorno. L’opzione meno costosa – tra i 50 e i 200 dollari per pagare il trafficante incaricato di distribuire mazzette alla polizia migratoria – è l’altra metà dell’isola dove si estende la Repubblica Dominicana. Tutt’altro che una nazione ricca, ma in confronto ad Haiti il salto è enorme. La migrazione verso lo Stato limitrofo è storica. «Il flusso, però, si è intensificato a partire dalla crisi, esplosa nell’estate 2018. È cresciuto, in particolare, negli ultimi mesi come dimostra l’attuale record di 1.500 espulsioni al giorno», spiega Ernst Pierre-Louis, coordinatore del Servizio gesuita per i rifugiati di Ounamenthe.
Nel luglio di due anni fa, si è scoperto un gigantesco giro di tangenti che ha ingoiato tre miliardi di aiuti venezuelani, erogati all’epoca dell’exploit petrolifero chavista, tra il 2008 e il 2016. Il cosiddetto scandalo Petrocaribe ha colmato la misura della pazienza haitiana, messa già a dura prova dalla mala gestione – da parte degli esecutivi nazionali e delle grandi potente – dei 6,4 miliardi di dollari di fondi per la ricostruzione post-sisma. La rivolta contro il presidente Jovenal Moïse, coinvolto come i due predecessori, va avanti da allora, con punte di violenza anarchica che hanno paralizzato il Paese per mesi. Nel frattempo, le già precarie finanze haitiane sono precipitate. Il governo, sotto il fuoco incrociato, è al terzo anno senza bilancio approvato, l’inflazione sfiora il 20 per cento e la gourde, la moneta nazionale, ha perso oltre un terzo del valore. «Nel corso del 2019, in base alle nostre rilevazioni, 40mila haitiani sono entrati in modo irregolare nella Repubblica Dominicana – prosegue Pierre-Louis –. Di questi, circa tremila erano minori. Per loro è più facile: passano sotto gli occhi degli agenti che fanno finta di non vederli. Tanto sanno che non andranno lontano: si fermeranno tra Dejabón e Monte Christi. Possono rimpatriarli quando vogliono». O quando lo ritengono politicamente conveniente.
I governi dominicani sono abili nel manipolare l’insofferenza diffusa verso i vicini più poveri. Le espulsioni cicliche sono un’arma elettorale potente. «Ma sono inutili e costose. Molti rimpatriati semplicemente ritornato in Repubblica Dominicana passando per lo stesso punto o un altro, legale o illegale», afferma Giuseppe Lo Prete, rappresentante dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ad Haiti. Questo spiega perché la comunità haitiana residente nel Paese limitrofo resti sempre intorno al mezzo milione di persone. La gran parte lavora nei campi di canna, nel turismo, nelle costruzioni, svolgendo mansioni non qualificate ma necessarie al mercato dominicano. «Trasformare i flussi irregolari in regolari sarebbe, dunque, più convenienti per tutti», afferma Lo Prete. Al contrario, la mancanza di documenti rende i migranti vulnerabili: i casi di sfruttamento sono quotidiani. «Qualche mese fa, abbiamo soccorso alla frontiera, un’haitiana con un braccio rotto per le bastonate ricevute dal padrone del campo. Questi, pur di non darle il salario, a fine mese, l’aveva denunciata per farla espellere», sottolinea il rappresentante dell’Oim.
Sono bimbi e adolescenti, però, a pagare il prezzo più alto. Finiscono per strada, a mendicare, in fuga perenne dalla polizia e dalle gang locali che li taglieggia. Come Hamilton che, esausto, ha bussato alle porte dell’Hogar de Cristo, centro creato dai gesuiti per i baby-migranti in difficoltà. Insieme all’Ong Avsi – presente sull’isola dal 1999 e da alcuni anni impegnata con progetti per la tutela dei lavoratori migranti haitiani finanziati dall’Unione Europea – il centro è riuscito a riportarlo a casa, dalla nonna. «Tra dicembre 2017 e novembre 2019, abbiamo riunito 600 minori con le famiglie d’origine», spiega Veronica Dal Moro di Avsi. Tra loro c’è Etienne, 16 anni, rimasto per sette mesi a Dejabón nel 2019. «Era difficile perché dovevo sempre guardarmi le spalle», racconta a Kay Jezi, il rifugio gemello, nella haitiana Ouanamenthe, del centro Hogar de Cristo. «Non sono ancora potuto tornare a casa, a Le Cap, mio padre è arrabbiato». «Il ricongiungimento è un processo lungo. Spesso i ragazzi sono scappati da situazioni familiari difficili: è necessario preparare i genitori. C’è, poi, la questione economica. Per questo, abbiamo aiutato i genitori ad avviare piccole attività di commercio informale», afferma l’operatrice di Avsi.
A volte non ci si riesce. Gil, 14 anni, partito a novembre, ad esempio, non ha più nessuno a cui tornare. Non ha mai conosciuto il padre, la madre è emigrata anche lei in Repubblica Dominicana e si sono perse le tracce, la zia non lo vuole, per l’orfanotrofio è troppo "grande". Deve restare, così, a Dejabón. La notte dorme al Hogar de Cristo, il giorno lo passa per strada a lustrare scarpe. «Non è male in fondo. Solo vorrei poter andare a scuola. Sono emigrato per racimolare un po’ di soldi e pagare la retta. Finora non ne ho fatti molti. Ma magari se mi impegno tanto...».