Opinioni

2 aprile 2005. Quella notte di veglia coi giovani: «E ora da chi andremo?»

Marina Corradi mercoledì 2 aprile 2025

Ancora nel pomeriggio, da sotto la sua finestra i ragazzi lo chiamavano: “Giovanni Paolooo! Giovanni Paolooo!”. Come bambini che cercano uno di loro, che tardi a scendere per giocare. Ma quella finestra del Palazzo Apostolico rimaneva chiusa. Era il 2 aprile 2005: aprile, quando Roma è splendida. Karol Wojtyla era in agonia. Usciti dal lavoro molti romani passavano da San Pietro, silenziosi. Poi, annunciò monsignor Comastri, «questa sera o questa notte Cristo aprirà al Papa le sue porte». I ragazzi sotto a quella finestra, però, non volevano crederci. Con la notte il Colonnato andò ancora riempiendosi. C’erano giovani giganti biondi fasciati della bandiera polacca, vecchie signore, e ragazzi di borgata, e immigrati, e mamme con i bambini. L’annuncio colpì la piazza come un pugno. Scattò un applauso. Poi, una frazione di silenzio: mi voltai, gli occhi di tutti erano diversi.

Le campane di San Pietro presero a suonare: continue, lente, gravi. Quel battito entrava in ogni vicolo di Roma e chiamava un popolo, magari abitualmente distratto, che ora accorreva: e molti piangevano. Figli, ci sentivamo quella sera in San Pietro, e orfani: ma, veramente, sembravamo una cosa sola. Alle prime luci dell’alba i ragazzi sotto al Colonnato erano moltiplicati: arrivati nella notte, da Nord e da Sud, stretti in cinque in utilitarie scalcagnate. Avevano dormito e pianto nei sacchi a pelo, in interminabili ore. Uno di Napoli mi disse: «A casa mi hanno insegnato che non si lascia solo, un morto caro». Erano venuti a vegliare, quei ventenni, il padre. Sentii che in un gruppetto infreddolito ci si domandava: «E ora, da chi andremo?». Che è la domanda che si facevano i discepoli di Martino di Tours, alla sua morte.

Giorni struggenti: un privilegio, avere visto. La prima mattina di esposizione della salma era ancora buio, quando mi avviai alla Basilica. Sbalordita mi trovai in mezzo a una folla che dal Lungotevere e da Piazza Pia già arrivava di passo svelto, quasi affannata. Gente che poi doveva andare al lavoro, ma prima voleva salutare il Papa. Alcuni avevano in braccio bambini assonnati. Le donne anziane stavano attaccate al braccio dei figli, per non perdersi nella calca. Quando ci fermammo eravamo ben distanti dalla Basilica, e un fiume di altri, davanti a noi. Il sole stava appena sorgendo alle nostre spalle. Finalmente nell’ombra di San Pietro la coda scorreva, ma lenta: chi arrivava al Papa stentava ad andarsene. Karol Wojtyla aveva sulla faccia il colore inequivocabile che dà la morte. Quanto lontano in una notte era andato, quell’uomo così amato.

Fu meno doloroso forse il funerale, nella piazza stracolma, nel sole già tiepido, nel pomeriggio di aprile. Le bandiere polacche impugnate con fierezza da giovani forti, come il seguito di un sovrano. La folla di ogni età, colore, provenienza, e la madre con in braccio un bambino bello come un putto, che gridava reclamando il seno. Un popolo, in San Pietro. Poi il sole, declinando al tramonto, purpureo, passò dietro il Cupolone, e una vasta area della piazza entrò nell’ombra. Quasi un sentire passare la morte. Ma la morte di un santo: gli uomini e le donne in piazza ne erano certi.

Così che non si tornò a casa come dai nostri funerali, cercando di consolarsi a vicenda con parole meste e spesso vane. Una speranza densa, quasi tangibile, è ciò che ricordo di quel giorno in San Pietro. Quel sacerdote cresciuto nell’Est, il combattente, quel leone ora immoto nella bara, era solo una dolorosa apparenza. Lui, morto? Risento ancora il coro delle voci di ragazzi che lo chiamavano sotto la sua finestra, quel 2 aprile. Una banda di fanciulli che cercavano un compagno, ansiosi di tornare a correre assieme.