Opinioni

I poeti e noi. La storia di Tancredi e Clorinda parla della pace oltre le corazza

Marco Erba martedì 22 ottobre 2024

Tancredi battezza Clorinda, affresco di Johann Friedrich Overbeck con interventi del boemo Führich (1819-27), a Villa Giustiniani al Laterano, detta anche "Casino Massimo Lancellotti" o "Villa Massimo al Laterano"

Nella Gerusalemme liberata, capolavoro del Cinquecento, il poeta Torquato Tasso riprende il tema, diffusissimo nella tradizione, della guerra santa. Il poema celebra infatti la prima crociata, con la quale i cristiani, capeggiati dall’impavido Goffredo di Buglione, riescono nel 1099 a riconquistare Gerusalemme, caduta in precedenza nelle mani dei musulmani. Inutile cercare tra queste pagine, zeppe di eventi meravigliosi e magia, una veridicità storica. Lo stesso Goffredo di Buglione celebrato dal Tasso nei suoi versi è assai diverso, dicono gli storici, da quello reale, personaggio di ben più modesta caratura.

Ciò che è interessante è invece vedere come, attraverso i secoli, torni un archetipo ancora oggi attuale: la battaglia contro l’infedele, il diverso che minaccia col suo stesso modo di vivere l’esistenza della nostra civiltà. L’umanità divisa in due blocchi: i buoni e i cattivi. I buoni che hanno Dio dalla loro parte, i cattivi che sono le schiere di Satana, incarnazione del male. L’incipit del poema è a tal proposito illuminante:


Canto l’arme pietose, e ’l Capitano

che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.

Molto egli oprò col senno e con la mano;

molto soffrì nel glorioso acquisto:

E invan l’Inferno vi s’oppose; e invano

s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.

Il Ciel gli diè favore, e sotto ai santi

segni ridusse i suoi compagni erranti.


Il Cielo dà il suo favore a Goffredo, al quale l’Inferno stesso si oppone attraverso gli infedeli. Si parla di uno contro di civiltà irriducibile. È una visione del mondo e della storia che periodicamente riemerge: si pensi all’11 settembre, agli attentati dell’Isis. Ma ciò vale anche per le guerre in corso: quante volte vengono descritte come una lotta del bene contro il male? Semplificando si trascura certo la complessità del reale: la geopolitica è ridotta a tifo da stadio, magari per ottenere consenso. Le persone perdono così la loro umanità, la loro individualità: prima che esseri umani, e pertanto unici e irripetibili, vengono identificati come appartenenti a uno schieramento. Un noto quotidiano italiano, dopo il terribile attacco terroristico al Bataclan di Parigi il 13 novembre del 2015, aprì la prima pagina con il titolo “Bastardi islamici”: i buoni contro i cattivi, il cielo contro l’inferno, i musulmani equiparati automaticamente a terroristi assassini perché colpevoli di credere in un altro Dio.

C’è però chi si oppone a questa logica. Penso al generale Jovan Divjak, che, seppur di origini serbe, difese nella guerra di Bosnia degli anni Novanta la capitale multietnica Sarajevo contro le armate dei serbi nazionalisti di Radovan Karadžić e di Ratko Mladić. Divjak si schierò a difesa di una città a maggioranza musulmana proprio in nome di quella Bosnia nella quale le identità differenti erano da secoli ponti tra le persone. Divjak, mancato nell’aprile 2021, ha sempre rifiutato l’etichetta di serbo buono e si è sempre definito bosniaco, pur senza rinnegare le proprie radici. Sosteneva che gruppi etnici e nazionalità fossero come abiti troppo stretti, nei quali c’è il rischio di soffocare.

Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata ebbe una vita tormentata. Si spostò continuamente su e giù per la penisola italiana. Fu assillato da scrupoli religiosi, tanto da sottoporsi spontaneamente all’Inquisizione di Ferrara per essere rassicurato sull’ortodossia della propria fede. Sempre a Ferrara fu per sette anni rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna, giudicato “pazzo furioso”. Fu un uomo di una incredibile sensibilità, che se da un lato lo spinse verso una religiosità rigida e morbosa, dall’altro gli consentì di scrivere pagine di indimenticabile umanità.

Nella Gerusalemme liberata, suo capolavoro, questa ambivalenza è molto presente. All’inizio del poema, Tasso invita il duca di Ferrara Alfonso II d’Este a capeggiare una nuova crociata contro l’infedele:


Emulo di Goffredo, i nostri carmi

Intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.


Ci sono però pagine in cui prevale l’umanità dei personaggi, al di là della loro appartenenza religiosa. Un episodio emblematico in tal senso vede come protagonista il guerriero cristiano Tancredi. Tancredi, a dispetto della sua fede, è innamorato della guerriera saracena Clorinda, una infedele. L’amore però, si sa, rompe le barriere, abbatte i muri, crea strade nuove.

Una notte due soldati saraceni compiono un’impresa che infligge un duro colpo ai cristiani: bruciano una torre d’assedio. Subito parte l’inseguimento. Uno dei due saraceni riesce a rifugiarsi dentro alle mura di Gerusalemme tra i suoi compagni, l’altro prova a dileguarsi nel buio, ma un guerriero cristiano non lo molla: Tancredi, appunto.

I due si trovano soli, faccia a faccia. Nessuno assiste al loro duello, che è tremendo:


E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,

Ed aguzza l’orgoglio, e l’ire accende.

E vansi a ritrovar non altrimenti

Che due tori gelosi, e d’ira ardenti.


I guerrieri sono accesi di orgoglio e di ira. Hanno perso la loro umanità: sono due tori ardenti. Non vedono l’altro: hanno di fronte una corazza senza volto. Per uccidere in guerra devi dimenticare la tua umanità, come racconta benissimo Fabrizio De André ne “La guerra di Piero”:


E mentre marciavi con l’anima in spalle

vedesti un uomo in fondo alla valle

che aveva il tuo stesso identico umore

ma la divisa di un altro colore.


Il nemico è una persona come te, ma tu devi dimenticartelo: devi sparargli. Devi fermarti alla sua divisa. Devi ridurre la sua umanità a una appartenenza sbagliata. Devi disumanizzarlo, per giustificare la violenza che fai su di lui. Devi convincerti che, se non sarai tu a colpire, lui colpirà te. Tancredi e il nemico si attaccano con tutte le forze. La spirale dell’odio e dell’ira è innescata. Non si ferma più, esacerbata dal dolore. La guerra, ogni guerra grande o piccola, tra Stati o tra persone, tra eserciti o tra vicini, tra parenti o tra colleghi, è proprio così: infligge dolore, esaspera chi il dolore lo subisce e spinge la vittima a diventare carnefice, infliggendo dolore a sua volta per mettere i piatti della bilancia in pari. Ma i piatti non vanno mai in pari e la spirale della violenza sprofonda all’infinito.

Tancredi e il suo avversario si feriscono e le ferite spingono a colpire con ancora più forza, dimenticando ogni regola:


Dansi co’ pomi, e, infelloniti e crudi,

cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.


I nemici si prendono a testate, si colpiscono con l’elsa della spada, perché tra loro corpi non c’è più spazio. Si ritrovano l’uno tra le braccia dell’altro: una stretta mortale. In un momento di pausa, Tancredi chiede al nemico il suo nome, ma quello non glielo dice. Non c’è spazio per rivelare la propria identità: l’altro è solo un male da annientare. Tancredi, alla fine, sferra il colpo decisivo. Il nemico crolla a terra. È il momento dell’esultanza, ma qualcosa non va come dovrebbe. Cadendo, l’avversario si rivela persona. Di fronte alla morte, la guerra perde consistenza, l’ira si spegne. Lo sconfitto pronuncia parole nuove: chiama Tancredi “amico”, gli chiede perdono e chiede di essere perdonato. Il perdono cambia la logica, rompe la spirale dell’ira e dell’odio, riscopre l’umanità. Tancredi depone le armi e toglie l’elmo allo sconosciuto avversario:


La vide, la conobbe, e restò senza

e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza.


La sua vittima è Clorinda, la donna che Tancredi ama con tutto sé stesso. La spirale dell’odio si mostra in tutta la sua drammatica assurdità. La follia del conflitto si rivela, purtroppo, solo quando le conseguenze sono definitive. Dimenticando la persona, nel conflitto ti ritrovi a uccidere chi ami. Tancredi però fa un ultimo gesto che sana. Raccoglie le forze, evita di impazzire di dolore e battezza Clorinda pochi attimi prima che lei muoia. Nella mentalità dell’epoca battesimo è sinonimo di salvezza: battezzare Clorinda, che lo chiede, è quindi un dono di capitale importanza. Forse però il gesto di Tancredi può essere interpretato anche come la riscoperta dell’umanità condivisa, il ritrovarsi parte di un’unica comunità.

Clorinda muore tendendo la mano a Tancredi in segno di pace:


In questa forma

passa la bella donna, e par che dorma.


Pur nella tragedia, quella mano tesa ha la forza di un gesto definitivo, vittorioso. Una mano tesa che dà serenità e insieme provoca ogni lettore a compiere quello stesso gesto nel quotidiano, ognuno dentro ai piccoli e grandi conflitti della propria vita. Ognuno coi suoi nemici, che poi nemici non sono mai, perché ogni guerra parte dal nostro modo di guardare alle cose.

Insegnante e scrittore