Primo maggio. È nella dignità del lavoro la vera risposta alla crisi
Agli inizi del ’900, una delle ricerche più note nella storia della sociologia, I disoccupati di Marienthal, descrisse le conseguenze della chiusura della fabbrica attorno alla quale questa cittadina austriaca era cresciuta. La ricerca è il racconto degli effetti paralizzanti della disoccupazione; della condizione di apatia che colpisce chi è da più tempo senza lavoro; del crollo della speranza che si traduce nell’estraneazione dalla vita sociale, fino a innestare un circolo vizioso che riduce ulteriormente le possibilità di affrancamento; e, ancora, del nesso tra deprivazione materiale e deprivazione psicologica, della destrutturazione del tempo quotidiano non più scandito dall’orario di lavoro. Certo le reazioni erano diverse: alcune delle famiglie mantenevano speranze e vitalità; altre erano rassegnate e prive di progetti; altre ancora disperate o ormai completamente passive ed abbruttite. Ma, in ogni caso, quello tracciato dai ricercatori è il ritratto di una comunità 'stremata' e profondamente colpita da una disoccupazione vissuta come esperienza collettiva.
Così, se per un verso le indicazioni emerse dall’indagine sono ancora estremamente attuali, per l’altro la realtà che vi è rappresentata è assai diversa da quella contemporanea, composta da molte, e diverse, 'disoccupazioni', e da un confine sempre più poroso e contiguo col mondo del lavoro, e soprattutto del 'cattivo lavorio'. Negli anni a noi più vicini, le ricerche hanno piuttosto descritto la condizione di un disoccupato che vive la sua situazione con un senso di isolamento e anormalità, in un contesto in cui la condizione normale, almeno per i maschi adulti, è quella di lavoratore. La condizione di donne escluse dal mercato perché mogli e madri, o a 'rischio' di diventarlo. Quella di giovani 'volontariamente' disoccupati, perché indisponibili a ricoprire impieghi al di sotto delle loro aspettative e del loro livello d’istruzione. E per quanto la disoccupazione possa essere un’esperienza diffusa, quasi sempre è vissuta come problema individuale e non facilmente riconducibile alla natura di fenomeno collettivo. Quanto meno non in modo tale da spezzare quel legame tra lavoro e cittadinanza che ha permeato di sé non solo il diritto di accedere alle prestazioni di welfare, ma anche i processi di costruzione identitaria in quella che, non a caso, è stata definita la 'società salariale'.
Ci è voluta la più grave crisi economica del dopoguerra per riportare prepotentemente alla ribalta il tema della disoccupazione, nelle sue dimensioni sempre più allarmanti, ma anche nella sua capacità di coinvolgere inedite categorie sociali. Le nuove icone della disoccupazione sono i giovani, vittime predestinate di quel 'mito incapacitante' rafforzato dai messaggi mediatici che sembrerebbero condannarli al precariato a vita, piuttosto che all’emigrazione; sono i lavoratori senior dismessi dalle loro aziende perché divenuti troppo costosi nel nuovo mondo del lavoro flessibile e sottopagato; sono gli immigrati giunti col loro carico di speranze e illusioni per poi essere scalzati dagli ultimi arrivati, ancor più adattabili di loro; sono i piccoli imprenditori artefici del miracolo del Nord-Est, travolti da una crisi che ne ha decretato il fallimento esistenziale oltre che lavorativo; e sono, sebbene di essi quasi mai si parli, quanti hanno finito col restare schiacciati tra l’imperativo per loro irraggiungibile dell’eccellenza e la concorrenza 'sleale' di una forza lavoro iper-adattabile, fatta di 'nuovi schiavi' che il bisogno spinge ad accettare qualsiasi trattamento; sono, infine, le centinaia di migliaia di Neet, giovani e adolescenti spesso usciti anzitempo dai sistemi formativi e a volte già rassegnati a un destino di marginalità sul mercato del lavoro. Tante tessere che però, ancora una volta, faticano a ricomporsi nel disegno di un mosaico capace di esprimere adeguate forme di mobilitazione e, soprattutto, d’infondere uno spirito di solidarietà tale da affrancare ciascuna di loro dal dubbio di 'avere sbagliato qualcosa'.
La disoccupazione finisce così, troppo spesso, per essere vissuta come un problema – o come un vero e proprio dramma – individuale, al pari delle strategie, per lo più individualistiche, attraverso le quali le persone e le famiglie tentano (quando sono in grado di farlo) di mettersi al riparo da questo rischio, con l’inevitabile effetto di spostare sempre più in alto l’asticella della competizione. Eppure, se una lezione può essere tratta dalla crisi, essa riguarda la necessità di ripensare i caratteri di un modello di sviluppo che è divenuto via via meno competitivo proprio perché troppo poco inclusivo. Ed è tale consapevolezza, ancor più delle sue dimensioni, a fare dell’esclusione dal lavoro un problema sociale, per quanto diverse ne siano le ragioni e le implicazioni sul piano individuale. Come tante volte illustrato nelle pagine di questo giornale, è alla produzione di 'scarti umani', su scala globale e locale, che bisogna guardare per rintracciare le cause di quella che, al di là dell’andamento dei dati ufficiali – e dell’immancabile strascico di polemiche tra le forze politiche – è ormai chiaramente diagnosticata come una disoccupazione strutturale (e tanto più potrebbe diventarlo, secondo le infauste previsioni cristallizzate attorno allo spauracchio della rivoluzione 4.0). Così come sempre più chiaro è l’intreccio tra i processi di distribuzione della ricchezza – che hanno portato, negli ultimi anni, a un drammatico ampliamento delle disuguaglianze sociali e all’impoverimento di vaste fasce della popolazione – per comprendere le difficoltà dell’economia a rimettersi in moto.
Occorre, in altre parole, squarciare il velo sulle quelle scelte 'strategiche', spacciate come la conseguenza inevitabile della competizione globale, che hanno generato una fatale inversione dell’ordine delle priorità: piuttosto che un lavoro per l’uomo (e per la donna) si è finito col piegare l’uomo al servizio del (cattivo) lavoro. Per quanto possa apparire paradossale, la chiave di volta del lavoro che non c’è ha infatti a che fare con la distanza che separa la realtà contemporanea del lavoro dalla nozione di lavoro decente, ovvero, come ci ricorda la Caritas in Veritate, un lavoro che sia «espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna» (n. 63). Sul piano delle azioni concrete si tratta, in primo luogo, d’invertire la rotta di un’economia che ha prodotto, negli ultimi anni, un riallineamento verso il basso della qualità complessiva dell’occupazione, mettendo a frutto i capitali umani sottoutilizzati, premiando l’innovazione e la creatività, sostenendo le ambizioni imprenditoriali di tanti giovani che, con determinazione e audacia, progettano di creare essi stessi il proprio posto di lavoro. Ma, al tempo stesso, vigilare affinché anche il più umile dei lavori si svolga in condizioni dignitose, assicuri una remunerazione adeguata e la possibilità di costruire un’identità professionale non stigmatizzante. Prendendo le distanze dalla stessa retorica della meritocrazia, che se giustamente premia e valorizza l’impegno e i talenti individuali, rischia di indugiare a finalità selettive quando non è accompagnata dalla tensione a dar vita a mercati del lavoro realmente inclusivi.
Per edificare un’economia che sia al servizio dell’uomo, ristabilendo il giusto ordine delle priorità, bisogna ripartire dall’ascolto delle situazioni reali, ovvero degli uomini e delle donne che vivono il dramma della disoccupazione, e delle loro storie ognuna diversa dall’altra, per aiutarli a comprendere le ragioni che li hanno portati a ritrovarsi senza lavoro e a progettare un percorso di reinserimento. Così come occorre promuovere la costruzione di organizzazioni di lavoro capaci di vincere la sfida di includere le mille 'diversità' di cui oggi si compone la forza lavoro, con tutte le loro fragilità, e di metterne a frutto il potenziale. E occorre, infine, imparare a leggere i bisogni delle persone, delle famiglie e delle comunità locali, e a scoprire in essi dei bacini immensi di opportunità occupazionali da creare, recuperando, accanto a quella dell’autorealizzazione – tanto enfatizzata dalla nostra cultura individualistica – l’altra dimensione del lavoro, quella della responsabilità, ovvero la tensione per la costruzione del bene comune.