Opinioni

Invecchiamento demografico. Nella crisi globale delle nascite l'Italia è a un bivio

Alessandro Rosina martedì 9 febbraio 2021

La Terra gira continuamente e si rinnova ogni giorno, ogni stagione, ogni anno. La vita su questo pianeta viene reinterpretata da generazioni nuove, che prendono progressivamente il posto di quelle precedenti e si aprono generativamente verso quelle successive. Per lunga parte della storia dell’umanità le nascite sono state abbondanti, in media cinque e oltre per donna, ma molto elevata era anche la mortalità infantile e nelle fasi successive. Se la popolazione mondiale non si è estinta è stato grazie alla vitalità che è stata in grado di esprimere, mantenuta maggiore rispetto ad una elevata mortalità ordinaria e a ricorrenti epidemie presenti in forma endemica. Nei secoli più recenti la scienza, gli strumenti di salute pubblica, la maggior consapevolezza nei confronti del benessere individuale e collettivo, hanno ridotto notevolmente l’incidenza della mortalità dalla nascita fino alle età più avanzate. Un bambino che nasce oggi in Europa ha una elevata probabilità di vivere ben oltre l’età dei propri nonni. Questo processo viene chiamato 'transizione sanitaria'. Tale processo è stato seguito dalla 'transizione riproduttiva', che ha condotto l’avere figli all’interno di un processo decisionale sempre più deliberato e consapevole.

Oggi, per la maggioranza delle persone, avere figli è sempre meno una scelta scontata e si realizza sempre più come espressione concreta di un desiderio che deve trovare le condizioni adatte per potersi pienamente realizzare. Si tratta di una scelta che non può essere imposta per legge e nemmeno si può pensare che lo Stato paghi le coppie perché abbiamo quei figli che altrimenti non avrebbero voluto e avuto. Non si sceglie di nascere, ma si sceglie di essere genitori e di assumere tale ruolo verso un figlio desiderato, che sia naturale o adottivo. È tale scelta che consente a ogni nuova generazione di tenere aperto il futuro dopo sé. Chiedersi cosa sta alla base della decisione di avere un figlio è, quindi, una domanda che per ogni nuova generazione si pone al centro della questione di quale società si vuole costruire, con quali prospettive e quali valori di riferimento.

Non è un caso che tale scelta entri in crisi nei momenti di passaggio e nei paesi che maggiormente lasciano crescere la condizione di incertezza dei propri abitanti in tali fasi. Nei paesi occidentali la fecondità è scesa sotto i due figli per donna verso la fine dei 'Trenta gloriosi', che corrispondono ai primi tre decenni di crescita, di espansione del sistema di welfare, in un contesto ancora di famiglia tradizionale, del secondo dopoguerra. Svezia e Danimarca sono tra i primi paesi che entrano negli anni Settanta del secolo scorso con un numero medio di figli per donna sceso sotto i due (la soglia dell’equilibrio tra generazioni). Ad inizio degli anni Ottanta gran parte dei paesi occidentali seguono lo stesso percorso. I paesi del Sud Europa scendono più tardi ma in modo più drastico. L’Europa occidentale si colloca tutta sotto i due figli per donna negli ultimi decenni del Novecento, ma con ampia varietà. Gli opposti estremi sono la Francia che rimane stabilmente poco sotto due, e i paesi mediterranei che si inabissano su valori più vicini a uno. Una fase di passaggio che produce forti contraccolpi sulla fecondità è quella dei paesi dell’ex blocco sovietico. Dalla caduta del muro di Berlino fino all’entrata nel nuovo secolo passano da livelli vicini ai due figli per donna a valori addirittura inferiori ai paesi del Sud Europa. Dopo tale forte contraccolpo il tasso di fecondità torna a salire, arrivando in alcuni casi sopra la media europea. Particolare è il percorso della Germania, che dopo l’unificazione rimane a lungo su valori molto bassi, ma affronta meglio del resto del continente la crisi del 2008-2013 evidenziando nel secondo decennio del XXI secolo un sensibile processo di riavvicinamento ai valori medi europei.

I risultati positivi della Germania si devono ad un solido piano di potenziamento delle politiche familiari – in termini di sostegno economico e servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia – realizzato proprio in concomitanza con la recessione (avviato da Ursula von der Leyen, attuale Presidente della Commissione europea, ministro della Famiglia dal 2005 al 2009 e poi ministro del Lavoro e degli Affari sociali fino al 2013). Ciò ha consentito non solo di limitare gli effetti negativi sulle famiglie, ma di migliorare anche il clima di fiducia che è fondamentale per la scelta di avere un figlio. Nel 2008 il tasso di fecondità era pari a 1,38 in Germania e la media Ue a 1,57. Nel 2016 il valore medio europeo risultava ancora 1,57, mentre quello tedesco era salito a 1,60. Se però l’attenzione verso le nuove generazioni si allenta e le politiche familiari smettono di esse considerate una priorità (con impegno al continuo miglioramento e integrazione con le politiche di sviluppo), la scelta non scontata di avere un figlio si indebolisce. A realizzarla rimane soprattutto chi ha buone condizioni economiche e forti motivazioni, categoria che non rappresenta la maggioranza delle nuove generazioni. Dopo la punta del 2016 il tasso di fecondità della Germania smette di salire e risulta in leggera flessione poco prima dell’impatto della pandemia (1,54 nel 2019). Si tratta, in ogni caso, di un valore molto sopra il livello del 2008. Di particolare interesse è anche il caso della Francia – paese che ha sempre mantenuto solide politiche di sostegno alla natalità – che da valori vicini ai due figli per donna fino a metà del decennio appena concluso è scesa a 1,87 nel 2019. Rimane, certo, uno dei livelli più elevati delle economie avanzate del mondo occidentale, ma la riduzione è sensibile.

La diminuzione del tasso di fecondità negli anni precedenti la pandemia è un fenomeno condiviso da vari altri paesi, in continenti diversi e con regimi di welfare diversi: è il caso di Svezia, Inghilterra, Australia e Usa (da valori vicini ai due figli per donna nel 2010 risultano nel 2019 scesi attorno a 1,7). In discesa anche la Russia, tornata a valori vicini alla media europea, mentre i casi di andamento opposto, come la Romania, appaiono eccezioni che confermano la regola di un indebolimento generalizzato della scelta di avere figli.

Con l’impatto della pandemia, in ogni caso, si produce ora un cambiamento di scenario. Dopo il crollo più o meno intenso provocato sulle nascite (soprattutto nel 2021), dal 2022 in poi avremo alcuni paesi che assesteranno ulteriormente verso il basso la tendenza declinante mostrata nella conclusione del decennio precedente, mentre altri potranno cogliere l’occasione per mettere le basi di una nuova normalità in cui le condizioni e le scelte dei giovani e delle famiglie siano parte centrale nei processi di produzione di nuovo benessere sociale ed economico.

In quale dei due gruppi si collocherà l’Italia? Siamo il paese in Europa che nell’insieme è sceso ai livelli più bassi di fecondità prima della crisi sanitaria, con il maggior crollo nell’ultimo decennio (da 1,46 del 2010 a 1,27 nel 2019), con struttura per età più squilibrata (da cui deriva una minor presenza di potenziali madri). Le dinamiche demografiche sono così compromesse che la popolazione totale italiana può solo diminuire nei prossimi anni e decenni. Ma non invertire la tendenza negativa della natalità andrebbe ad alimentare ulteriormente squilibri a svantaggio delle nuove generazioni (rendendo debito pubblico e spesa sociale progressivamente insostenibili).

Le risorse di Next Generation Eu e il Family Act riusciranno a dare l’impulso che serve per invertire una tendenza negativa quasi cronicizzata? Il fatto che gli squilibri demografici non appaiano tra le sfide da affrontare nelle ultime bozze del 'Piano nazionale di ripresa e resilienza' e, inoltre, che il Family Act, anziché trovare maggior spinta, negli ultimi mesi sia stato lasciato in sospeso (con l’Assegno unico universale finanziato solo in parte, rinviato a luglio 2021 e con rischio di ulteriore rinvio), non porta, almeno allo stato attuale, a dare una risposta positiva. Eppure la scelta di avere un figlio è quella più legata alla prospettiva di pensare alla 'next generation', che più rafforza la prospettiva di una ripresa, che più dimostra la capacità di resilienza delle persone e di una comunità, che maggiormente impegna a investire positivamente verso il futuro. Tale scelta va considerata, allora, l’indicatore più sensibile per capire se stiamo uscendo dalla crisi sanitaria, economica e sociale, ma anche la bussola migliore per valutare in quale direzione stiamo andando.