Vita da cronista. In Amazzonia, con i missionari felici di servire un popolo bambino
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Fu un viaggio straordinario. Suor Aquilina, da Besana Brianza, forte come una roccia, sempre sorridente: la sua faccia, mi è indimenticabile. Nell’orto della missione di Surumu in Amazzonia stava zappando quando un serpente, come una saetta, le scivolò tra i piedi. Aquilina, senza scomporsi, gli schiacciò la testa con un colpo di zappa. Io, che ero accanto, col poco fiato rimasto chiesi: «Ma era velenoso?». Risento ancora la risata bonaria della suora lombarda: «Tutto è velenoso, qui!». E ricordo le notti nella missione, insonni per l’afa ma anche per il mio terrore degli scorpioni, grossi come un uovo. Si metteva sotto a ogni piede della branda una tazza d’acqua, ad impedire che salissero sul letto. Ma mi era bastato vederne uno, nero come l’inferno, lucente col suo uncino velenoso, per essere sempre all’erta, in quei venti giorni in Amazzonia. Dentro a quella natura straordinaria, ma come drogata: foglie e fiori enormi, profumatissimi, e indescrivibili colori. L‘Occidente, al confronto, mi pareva un universo sbiadito.
Era il 1992, gennaio. Ersilio Tonini, allora arcivescovo di Ravenna, poi cardinale, aveva raggiunto a Boa Vista, in Brasile, il suo amico vescovo Aldo Mongiano. Da anni Tonini sosteneva l’impegno di Mongiano in favore degli indios, i nativi dell’Amazzonia decimati prima dai conquistatori poi dai garimpeiros, i cercatori d’oro e di diamanti. Ora attraverso Avvenire voleva lanciare una sottoscrizione per comprare del bestiame, di cui gli indios potessero vivere. Così anche io ero partita per il Brasile con Tonini. Minuto, magro, gli occhi buoni, mi era stato subito caro.
Quando il portellone dell’aereo si spalancò all’aeroporto di Boa Vista, l’afa umida e bollente ci tolse il fiato. Il vescovo Mongiano , su una jeep, portava una camicia a quadri e un cappello da cowboy. L’auto sobbalzava sulle strade disfatte, la povertà era evidente: case scalcinate, bande di bambini soli nelle strade, e ovunque l’insegna: “Compra de ouro”, “Si acquista oro”. Mi pareva d’essere caduta in un film western.
Dei due milioni del 1500, nel 1992 di indios ne erano rimasti 200mila, per lo più in condizioni miserabili: le loro foreste avvelenate, la terra sventrata dalle miniere. Una leggendaria miniera si chiamava Capim, in portoghese “erba”: perfino sulle radici delle piante, appena sottoterra, si trovavano attaccati piccolissimi diamanti. Il tesoro di Boa Vista era stato la rovina degli indios. I garimpeiros li avevano schiavizzati e corrotti, e indotto le donne alla prostituzione. L’alcol era rimasto per molti il solo sollievo. Da poco il governo brasiliano aveva riconosciuto agli indios il diritto a un territorio, ma nei fatti i fazienderos, i coltivatori bianchi, ne bruciavano i villaggi: Far West, davvero.
Due vescovi e diversi preti e suore combattevano per salvare un popolo massacrato. Da decenni i missionari della Consolata di Torino insegnavano a leggere e scrivere ai bambini indios. Quei bambini, bellissimi. Gli occhi scuri immensi sembravano fare una domanda: perché? Domanda insostenibile, nella miseria delle loro baracche. Io ero da pochi mesi sposata, e volevamo un figlio. Quei bambini, me li sarei portata a casa.
Ci mettemmo in viaggio verso l’interno con padre Giorgio Dal Ben, un trevisano. Un altro fatto di roccia, come Aquilina. Ci portò verso Maturuca con una jeep disassata, a ogni buca una botta alla schiena. Poi arrivammo a un ponte di legno su un fiume. Dal Ben fermò la jeep, scese, salì sul ponte – in verità di aspetto non rassicurante – a verificare gli assiti. Tornò al volante, mise in moto: «Se Dio vuole, il ponte tiene», disse. Io, costernata: «Come sarebbe a dire?». Ma già eravamo sul ponte, che gemeva sotto al peso della jeep. Questa era l’Amazzonia che ho visto: incognite e pericoli da ogni parte, e i missionari, avanti. Se Dio vuole si arriva, se Dio vuole si fa. Cosa sbalorditiva per me, milanese, abituata a ogni comodità e diritto. In quel mondo nulla era garantito. Confidare in Dio, era semplicemente una necessità.
Avevo visto a Boa Vista gli indios immiseriti dallo sfruttamento, sottomessi ad avventurieri voraci. Adesso però saremmo andati più lontano, proprio dentro alla foresta, in un villaggio di indios yanomami, quasi irraggiungibile. L’aereo era un piccolo bimotore malconcio. Tonini salì, sereno come sempre. Salii anche io, rassegnata. Il piccolo apparecchio si alzò sopra al mare verde della foresta, fitta, sterminata. Poi il pilota iniziò a scendere. Stavamo per atterrare. Ma dove?, mi chiedevo inquieta, guardando dal finestrino: vedevo solo la foresta. Poi scorsi una specie di tratturo lungo e stretto, pieno di bozze, come un campo di patate. Quella, la pista? Chiusi gli occhi e mi raccomandai al Padreterno.
Con un brusco tonfo l’aereo toccò terra, rimbalzò, si fermò. L’afa bollente dell’Amazzonia ci riavvolse. La casa dei missionari era una capanna di legno. Avevano appena mangiato, dal soffitto un ventilatore a pale ronzava, sulle scodelle rigorosamente vuote volavano le mosche. La più povera delle case: eppure io non avevo mai visto uomini così lieti. Tanto lieti che mi sbalordirono. Avevo ancora in mente le facce degli invitati a Sant’Ambrogio alla Scala che avevo seguito come cronista di Repubblica, due anni prima. Confrontavo quelle facce di potenti, nella esclusiva sera della Prima, e quella dei sacerdoti in Amazzonia. Quanto erano contenti, quei quattro. Avevo trovato, finalmente, degli uomini felici. Questa constatazione, lentamente, avrebbe cambiato la mia vita.
Da una finestra un grappolo di bambini indios ci guardava, curioso. I missionari ci condussero nel villaggio, e con Tonini entrammo in una maloca, la grande capanna in cui gli yanomami vivevano assieme. Nella penombra, sotto al tetto di paglia, che sbalordimento. Mamme che allattavano, ragazzini che giocavano, vecchi immobili ma vigili dai loro giacigli. E, insieme, galline razzolanti, pulcini, un fuoco che ardeva, odore di cibo. Gli uomini erano fuori, a cacciare. Tonini si fermò come avesse visto un miraggio: «Ma questo, è il mondo come al principio», disse, e restò a guardare, in silenzio, devotamente. Anche io ero stupefatta e commossa. Il mondo come al principio esisteva ancora, intatto, in quegli yanomami, ignari di tutto.
Ma anche lì i garimpeiros si avvicinavano, avvelenavano i fiumi per trovare l’oro: anche quel mondo rischiava di finire per sempre. Quattro missionari stavano proteggere il villaggio, a insegnare a scrivere ai bambini. Di Cristo, ancora non parlavano. (Era troppo presto, dicevano, l’infanzia di un popolo andava rispettata. Ci voleva tempo). Gli yanomami ci invitarono a una festa, in un villaggio vicino. A mezzogiorno il sentiero nella foresta era quasi buio, tanto densa era la vegetazione. Attorno, ovunque, stridii acuti di uccelli, ronzare di insetti, gracchiare di rane mai viste. I bambini del villaggio ci precedevano correndo, ridendo, arco e freccia nelle mani. Non giocavano: cacciavano. In un torrente limpidissimo nuotavano grossi pesci. Il capo della banda tese la corda dell’arco, scagliò la freccia, che trafisse un grosso pesce. Venne a mostracelo, fiero. Gli indios di Katrimani non avevano fame, la foresta li sfamava: davvero il mondo come al principio.
Nel villaggio, in una piazza, su un fuoco qualcosa bolliva in una grossa pentola. Ci offrirono il loro cibo, impossibile rifiutare. Pollo, mi dissi, gustando una carne morbida e insapore. «No, è alligatore», mi spiegò Tonini, che mangiava, come sempre, sereno. Il boccone mi andò di traverso.
Tornammo verso Boa Vista. L’afa che sempre toglieva il fiato. Dormivo male, sussultavo a ogni rumore. Avevo nausea, sempre nausea. Dev’essere l’alligatore, pensavo. Ma anche sul volo per l’Italia continuavo a stare male. Tonini, seduto accanto, mi guardava con una strana, paterna apprensione.
Tornare nel Primo mondo fu un sollievo – l’acqua potabile, la doccia calda, la luce elettrica mi parvero meravigliose. Tuttavia il mondo come al principio, con i bambini stretti alle mamme come cuccioli, mi era indimenticabile. E le facce di quei quattro, laggiù: uomini felici, finalmente – li avevo tanto cercati, e li avevo trovati.
Ma, ancora nausea. «Ho un morbo tropicale», dissi al medico, che mi prescrisse un sacco di analisi. Dopo dieci giorni feci l’unica analisi utile. Ero incinta: già, senza saperlo, in Amazzonia, sulle jeep che sobbalzavano sulle buche, sull’aeroplanino che atterrava alla spera in Dio su una sterrata. Evidentemente, “lui” era ben deciso a venire al mondo. E anche “lui” aveva mangiato l’alligatore. Nacque a settembre. Lo chiamammo Pietro. Come uno di quegli uomini felici laggiù nella grande foresta, custodi di un popolo bambino.