Opinioni

Nel tredicesimo mese dell'anno. La questione giovanile dentro la crisi

Alessandro Rosina venerdì 15 gennaio 2021

Se pensavamo che il nuovo anno e l’arrivo del vaccino avrebbero risolto tutto, ci siamo un po’ illusi. Gennaio 2021 sembra piuttosto un tredicesimo mese, aggiunto in coda al 2020. Siamo ancora in piena emergenza, con la diffusione dell’epidemia che resta impetuosa (e senza i freni posti sarebbe ancor più devastante); con i colori delle Regioni che cambiano; con le scuole che non sanno quando potranno ritornare con studenti in presenza perché il Ministero dice una cosa, le Regioni un’altra e i giudici un’altra ancora; con cittadini, famiglie e aziende che sentono ticchettare il timer della bomba socio-economica di primavera e vivono in un quadro di forte incertezza che, ora, la crisi di governo aggrava. L’emergenza, insomma, diventa sempre più pesante da gestire, e le sue conseguenze appaiono serissime non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo. E bisogna avere la lucidità di riconoscere che a pagarne il prezzo maggiore, oltre la stretta dimensione sanitaria, sono i giovani, messi ai margini dei percorsi di formazione e lavoro, e colpiti nella dimensione del benessere psicologico e sociale.

Le ricerche internazionali, documentate nel Rapporto steso dal gruppo di esperti su 'Demografia e Covid' istituito presso il Dipartimento per le politiche della famiglia, mostrano, in vari Paesi in cui i dati sono disponibili, come circa un giovane su tre durante il primo lockdown abbia riportato condizioni moderate o severe di stress e ansia, umore negativo, fino a stati di depressione, senso di abbandono e i disturbi psicosomatici. Varie analisi registrano, inoltre, un aumento dei comportamenti aggressivi, oppositivi e trasgressivi.

I fattori alla base della crescita del disagio sono molteplici. A livello individuale pesano le restrizioni sulla possibilità di interagire fisicamente con i coetanei, all’interno e fuori dalla scuola, di svolgere attività fisica, di fruizione di spazi di libertà, di esperienze in cui ci si misura con il mondo esterno. C’è poi il clima familiare, diventato in molti casi più teso da marzo 2020 in poi. I genitori stessi di molti adolescenti vivono situazioni di forti difficoltà per i contraccolpi sul lavoro, sul reddito, sull’organizzazione domestica in condizione di convivenza forzata e impegni sovrapposti in abitazioni non sempre adeguate. Molte ricerche documentano un aumento di stanchezza, di insoddisfazione e stress, di dissidi nelle relazioni sia orizzontali che verticali all’interno della famiglia.

E, infine, c’è la situazione sociale, economica e politica del Paese, in continua tensione. A cui si aggiunge spesso anche confusione, con messaggi a volte non ben veicolati, opinioni contraddittorie tra esperti espresse in modo sin troppo vivace, personaggi noti che ostentano atteggiamenti e comportamenti di minimizzazione e, persino, negazione del rischio di contagio.

La notizia più rilevante, all’interno di questo quadro, è il fatto che la grande maggioranza di giovani durante il lockdown ha seguito le regole e agito in modo responsabile. Secondo i dati dell’Osservatorio Giovani delll’Istituto Toniolo oltre il 90% afferma di concordare con le norme restrittive di contenimento della diffusione del virus e si dichiara generalmente attento al distanziamento, al lavaggio continuo delle mani e all’uso della mascherina.

Ma questo non significa che vada tutto bene nel mondo delle giovani generazioni. Ed è forse inevitabile il forte rilievo mediatico dato a risse e ad atti di violenza e autolesionismo.

Si sa: nella narrativa prevalente i ragazzi fanno notizia solo quando creano caos, disturbano o esprimono un protagonismo negativo e vanno bene solo quando rimangono fermi, in silenzio e si conformano alle aspettative del mondo degli adulti. Ma oltre a chiedergli questo che altro abbiamo fatto per loro e con loro? Ben poco. Sotto la punta dell’iceberg delle risse e dei comportamenti devianti, tutto sommato ancora limitati, c’è un disagio crescente, misto a insofferenza e incertezza rispetto al futuro. E il maggior rischio nella rotta del nostro Paese fuori dalla crisi sanitaria è la sottovalutazione dell’espansione di questa parte sommersa della realtà. Forse perché preferiamo non vedere.

È disarmante constatare che non abbiamo un sistema che ci consenta di monitorare chi rischia di perdersi, di sapere tempestivamente quanto sta aumentando la dispersione scolastica, di valutare in itinere le diverse ricadute sull’apprendimento, di verificare cosa sta accadendo a chi è nella condizione di Neet (i giovani che non studiano e non lavorano). Ed è proprio l’approccio che non funziona, conseguenza di un modello culturale che non si è rimesso in discussione. Il segnale più evidente viene dal grande piano europeo Next generation Eu, considerato nel nostro Paese soprattutto un grande 'affare' in termini di risorse da utilizzare, perdendo di vista l’obiettivo vero e più importante che dovrebbe essere quello di ripensare e reimpostare il modo in cui l’Italia progetta il proprio futuro attraverso scelte tese a mettere le nuove generazione nelle migliori condizioni per diventarne i principali interpreti. È a questo compito che dobbiamo far sentire chiamati i giovani se vogliamo che siano non un iceberg scomodo da evitare, ma il motore che dà forza e direzione al Paese verso una nuova rotta.