Asia. Nel settore tessile del Bangladesh migliorano le condizioni di lavoro
L’industria tessile del Bangladesh ha compiuto molti passi avanti in termini di tutela dei diritti dei lavoratori
Un tempo, prima che i britannici abbandonassero l’India lasciando tra le eredità più negative un Bengala diviso a metà – quello occidentale alla neonata Unione indiana e quello orientale al Pakistan – il territorio dell’odierno Bangladesh era Sonar Bangla, il “Bengala dorato” cantato dal Premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore nel 1905 in un poema che oggi è inno nazionale. L’oro era quello del colore della juta, principale prodotto della regione inviato poi alle manifatture attorno a Calcutta. La divisione portò alla separazione delle aree con le piantagioni di juta (nel Pakistan orientale) da quelle manifatturiere in India), mandando entrambe in crisi e, dopo la traumatica separazione dal Pakistan nel 1971, lasciando il neonato Bangladesh con le casse vuote e un potenziale economico solo in parte recuperato nel tempo. Oggi il “Bengala dorato” si va tingendo di verde. Non tanto o non solo per il colore che contraddistingue buona parte del suo territorio, piatto sul delta congiunto del Gange e Brahmaputra, ma per la netta svolta verso produzioni sostenibili sul piano ambientale e sociale.
Lontano dai riflettori per la poca informazione che lo riguarda ma con ottime prospettive, l’immagine del Bangladesh sta cambiando. L’apertura alle imprese e agli investimenti stranieri, l’evoluzione delle infrastrutture, una più ampia spinta migratoria, un’istruzione in crescita come diffusione e livello stanno portando una parte crescente dei 170 milioni di abitanti fuori dalla povertà e il Bangladesh è 32° nella graduatoria mondiale, con 460 miliardi di Pil nel 2022. Una delle conseguenze della crescita è anche un rapido cambio di prospettiva della sua realtà occupazionale e lavorativa e a segnalarlo, per le sue dimensioni e caratteristiche, è l’evoluzione della principale industria, quella del tessile, dell’abbigliamento e degli accessori, che occupa circa la metà degli otto milioni di lavoratori impiegati nelle manifatture e che, con una cifra arrivata a sfiorare i 23 miliardi di dollari l’anno, vale l’80% dell’export nazionale.
Fino a poco tempo fa nel mirino per le pessime condizioni di lavoro, i bassi salari, gli orari interminabili e i rischi per la salute e l’incolumità di chi – in maggioranza le donne – vi prestava la propria opera per sfuggire a una miseria ancora peggiore, il tessile rappresenta oggi un elemento essenziale nel mix produttivo e nell’export del Bangladesh ma, senza volere enfatizzare le situazioni di eccellenza, non è più necessariamente sinonimo di sfruttamento. Un tempo le manifatture tessili erano il primo obiettivo della consistente emigrazione dalle aree rurali alle periferie della capitale Dacca, centrale nello sviluppo di città-satellite esplose in pochi anni; quartieri-dormitorio dove si accalcavano masse di individui alla ricerca di un brandello di benessere, ma che finivano perlopiù vittime dello sfruttamento di imprenditori spesso parte della catena del subappalto della produzione per importanti brand internazionali.
Oggi la situazione va cambiando e se Savar, Ashulia, Gazipur e altre aree vanno dotandosi di servizi più efficienti, crescendo come dimensioni e popolazione, sempre più integrate nella metropoli tentacolare a cui le unisce un cordone ombelicale di traffico quasi senza soluzione di continuità a ogni ora, le pressioni internazionali unite a una nuova coscienza sociale e maggiore attenzione delle istituzioni impegnano migliaia di aziende a una svolta. Un cambiamento motivato anche dalle maggiori possibilità di impiego che rendono la massa della manodopera disponibile meno ampia e meno sfruttabile per occupazioni che richiedono ormai conoscenze e specializzazione.
Non mancano le leggi, in Bangladesh, sia per la tutela ambientale, sia del lavoro, ma una cosa è l’applicazione da parte delle aziende e un’altra la volontà politica di farle applicare. Determinante però è ormai l’indirizzo preso, in virtù degli obblighi che i committenti hanno imposto per far fronte a loro volta al rischio che la loro clientela, concentrata soprattutto in società con un alto livello di attenzione verso questioni come la tutela dei diritti umani, la lotta allo sfruttamento e la qualità dell’impiego, voltasse le spalle ai loro prodotti.
Tra gli esperti del settore, soprattutto dopo il crollo del Rana Plaza, l’edificio che ospitava diverse manifatture nel sobborgo di Savar, dove il 24 aprile 2013 morirono 1.134 persone, è maturata una nuova sensibilità, ed è cresciuto un movimento d’opinione. Molti si sono quindi impegnati a creare manifatture più in linea con le norme ambientali e soprattutto con le norme di riferimento internazionali. Al punto che oggi, secondo l’Associazione dei produttori e esportatori di vestiario del Bangladesh, il Paese ha il maggior numero di imprese rispettose dell’ambiente tra i produttori di tessile e abbigliamento. Un dato su tutti: vi sono 52 aziende bangladeshi tra le prime 100 al mondo per progresso nella tutela ambientale identificate secondo gli standard Leed (Leadership in Energy and Environmental Design) definiti dal Us Green Building Concil.
Un diverso approccio ambientale significa anche posti di lavoro più salubri, con servizi adeguati ma anche maggiore rispetto per il riposo, la salute e un migliore trattamento economico dei dipendenti. Quest’anno verso la rinegoziazione quinquennale tripartita governo-sindacati-datori di lavoro, il salario minimo nelle manifatture è di 8.000 thaka, equivalenti a meno di 80 dollari mensili, ma aziende come la Snowtex Group già pagano salari equivalenti a 130 dollari mensili, maggiori compensi per gli straordinari, inoltre offrono il pranzo gratuito e un giorno di riposo settimanale. Condizioni che per molti nel Paese continuano a essere un miraggio. È così che tanti che avevano abbandonato l’impiego per le pessime condizioni che caratterizzavano il luogo di lavoro, oggi tornano nelle aziende che sono cambiate in positivo. Non solo: gli impianti produttivi hanno standard di aerazione, igiene, gestione dei rifiuti e risparmio idrico di livello elevato; dispongono di pannelli solari che hanno ridotto della metà il costo dell’energia, mentre la costruzione di cisterne per l’acqua piovana e misure di risparmio hanno ridotto il consumo idrico del 30%. Il terreno su cui sorge l’impianto della Snowtex, ad esempio, è disseminato di alberi e in parte adibito a orti che consentono ai dipendenti di acquistare prodotti a prezzo calmierato.
Non un’eccezione, dato che – conferma l’Associazione dei produttori e esportatori del Bangladesh – sono 186 (contro i solo 3 di nove anni fa) gli impianti produttivi finora certificati secondo gli standard Leed per i progressi compiuti nella riduzione delle emissioni di carbonio, l’uso di acqua, di energia, di rifiuti come pure per una maggiore sostenibilità dei trasporti e dei materiali. Non tutti i committenti stranieri pagano un extra per le iniziative green che la Fatullah Apparels Ltd di Dacca – tra le fabbriche di maglieria che hanno raggiunto la valutazione “platino” di Leed, la più elevata al mondo – applica alla sua produzione, come segnala l’amministratore delegato Fazlee Shamim Ehsan. Tuttavia è fiducioso che possano presto cambiare atteggiamento. « Abbiamo investito milioni di dollari in impianti rispettosi dell’ambiente non soltanto per spuntare prezzi inferiori ma per proteggere la natura pur pensando agli affari», sottolinea l’imprenditore. Il sostegno statale è relativo, con un 2% di taglio sulle imposte. Insufficiente, ma di incoraggiamento affinché la certificazione “green” possa aprire a un ulteriore incremento produttivo. Chiave di uno sviluppo diverso per il Paese, grazie al tentativo di connettere risparmio energetico, minore impatto ambientale, maggiore efficienza e migliore reputazione commerciale.