Di questi tempi, il cosiddetto immaginario collettivo è fortemente condizionato dall’escalation di violenze perpetrate dalla miriade di gruppi jihadisti che seminano morte e distruzione. Basti pensare a quanto è avvenuto la scorsa settimana a Tunisi. L’uccisione di innocenti, tra i quali quattro nostri connazionali, ha acuito a dismisura il timore che simili attentati possano verificarsi anche in Italia. Il quadro geopolitico internazionale è certamente preoccupante, ma proprio per questa ragione siamo chiamati a ricercare, nella fede, una chiave di lettura degli avvenimenti e della Storia in generale, che possa aiutarci ad andare al di là di quelle che sono le brutali provocazioni dei terroristi. Da questo punto di vista è davvero salutare celebrare oggi la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri che, come ogni anno, cade nel
dies natalis di monsignor Oscar Romero, che sarà beatificato il prossimo 23 maggio. Promossa da Missio Giovani, l’organismo delle Pontificie Opere Missionarie Italiane, che da anni è impegnato nel promuovere la dimensione "ad gentes" tra le nuove generazioni, l’odierna giornata ha come slogan "Nel segno della croce". I missionari e le missionarie che hanno dato la vita per la causa del Regno non sono personaggi in cerca d’autore. Il loro sacrificio, in quelle che papa Francesco definisce periferie geografiche ed esistenziali, è il segno del trionfo della vita sulla morte. Dal consueto Rapporto annuale di Fides emerge che nel 2014 sono stati uccisi 26 operatori pastorali, 17 dei quali sacerdoti. Tre in più rispetto all’anno precedente. In dieci anni, dal 2004 al 2013, sono 230 i "missionari martiri" tra il "personale ecclesiastico", compresi tre vescovi, caduti sul campo per azioni violente, mentre svolgevano il proprio ministero. Da rilevare che Fides usa il termine "martiri" nel suo significato etimologico di "testimoni". La scelta è dettata dalla volontà di non entrare «in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro, e anche per la scarsità di notizie che si riescono a raccogliere sulla loro vita e sulle circostanze della morte». Ma se da una parte è vero che in base agli elementi raccolti dall’autorevole agenzia d’informazione missionaria si evince che la maggior parte delle uccisioni è dovuta a tentativi di rapina o furto, a volte «anche con efferatezza e ferocia», dall’altra non v’è dubbio che siamo davvero di fronte a uomini e donne che hanno condiviso, fino in fondo, ciò che avviene quotidianamente nei bassifondi in cui è relegata, ancora oggi, tanta umanità dolente. Il loro sacrificio, che trova fondamento nel grande mistero della croce, è indicativo, innanzitutto e soprattutto, del dono di una gratuità incondizionata a fianco degli ultimi. In una società planetaria come la nostra, in cui si registrano frequentemente situazioni di degrado morale, povertà economica, intolleranza culturale e religiosa, è davvero confortante sapere che esistono generosi interpreti del "radicalismo" cristiano. Alla lista dei caduti, va poi aggiunta quella degli scomparsi, operatori pastorali di cui non si hanno più notizie. Tra loro, figura anche il gesuita padre Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria nel 2013. Una cosa è certa: dietro al martirio c’è sempre e comunque il valore aggiunto del coraggio di osare. Le denunce di Romero contro la violenza e la sua opzione preferenziale per i poveri e con i poveri fecero di lui un missionario scomodo, appunto un martire. Ai poveri aveva promesso: «Se verrò ucciso, risorgerò nel mio popolo». Una risurrezione che afferma l’agognato cambiamento in cui noi tutti confidiamo.