Nel segno della prossimità. Il denso passaggio di testimone di Bagnasco
Che la voce gli sia mancata proprio mentre scandiva che «la nostra gioia è la più grande di tutte: ha un nome...» è un dettaglio non solo commovente – qual è il nome per il quale si è donata una vita intera? – ma anche rivelatore, come accade quando le parole vengono pesate una a una perché lascino traccia. Il cardinale Bagnasco è arrivato al termine dell’ultima relazione introduttiva dei suoi 10 anni alla guida dei vescovi italiani. Ma a completare quella riga finale che proprio non gli usciva è stato il lungo applauso dell’assemblea episcopale, tutta in piedi per ringraziare nel modo più comunicativo l’arcivescovo che cita sant’Agostino per dire di sé e confermare che «Dio parla in tutta libertà anche per mezzo di uomini timidi».
L’indole riservata del pastore che ha segnato con il suo stile garbato ma fermo la storia recente della Chiesa italiana attraverso due pontificati, una crisi globale dalle ricadute tuttora amare e le inquietudini di un Paese profondamente inascoltato, non gli ha impedito di consegnare ieri, nell’ultimo atto, un discorso chiaro, denso e diretto, che ha abbandonato la cadenza consueta dell’analisi sugli aspetti più significativi della vita ecclesiale e sociale per assumere anche esplicitamente il tono di un’accorata lettera aperta: ai giovani, alle famiglie, ai poveri, ai migranti, ai sacerdoti, tutti chiamati per nome, resi presenti e vivi.
Un’appassionata sintesi sul senso e i contenuti di una «prossimità» esemplare e tenace – ma non sempre compresa e ancor meno ascoltata – che non di rado ha «consentito di anticipare gli eventi» cogliendo e decifrando segnali inequivocabili ancorché apparentemente minimi: come, agli inizi della sua presidenza, il ritorno dei «pacchi viveri nelle nostre parrocchie», avvisaglia del vortice recessivo del quale politica e media si sarebbero accorti solo più tardi, come presi alla sprovvista.
Anche dentro questo dettaglio inserito nella relazione di ieri affiora il tratto personale dell’arcivescovo di Genova: nitidezza nei riferimenti e nelle chiavi interpretative (il nuovo umanesimo a confronto con l’individualismo esasperato di tanta cultura occidentale, la diffusione di una libertà tutta illusoria, lo screditamento autolesionista di relazioni e legami, il lavoro come garanzia di dignità che ne rende intollerabile la perdita), ma sempre con gli occhi negli occhi dell’interlocutore. Perché le parole dei vescovi – e dei credenti – non degenerino mai in lezioni impartite da distanza, ma restino un dialogo tra persone, la risposta a un ascolto autentico, la dimostrazione tangibile di una conoscenza senza mediazioni della realtà, quella vera.
È lo stile della Chiesa italiana, che parla e agisce ma solo perché condivide e partecipa, un’impronta riconoscibile e coerente con l’esperienza che gli italiani ne hanno e che ritrovano frequentando una qualunque parrocchia, fosse pure occasionalmente. La nostra Chiesa è ancora una casa accogliente per chiunque ne varchi la soglia, e negli ultimi dieci anni l’incalzare di emergenze e ferite ha solo reso ancor più evidente questo suo carattere familiare. Incoraggiandola a uscire e a farsi incontro a tutti, papa Francesco non ha fatto che chiederle di essere se stessa fino in fondo, liberandosi da rigidità e conformismi per camminare al passo di una realtà accelerata. È un profilo ecclesiale inconfondibile, lo stesso che, per tratti differenti, si ritrova anche nella fisionomia dei tre pastori candidati ieri dall’assemblea dei vescovi alla successione di Bagnasco.
L’attesa terna – Gualtiero Bassetti, Franco Giulio Brambilla, Francesco Montenegro – propone figure anche molto differenti per biografia, competenze, carattere, ma di tutti è nota la medesima capacità di vivere quella «vicinanza alle persone» che – sono parole di Bagnasco – «ci ha permesso di conoscere la vita reale e di dar voce a speranze, preoccupazioni e dolori del popolo». Se la responsabilità di «servire» – è il verbo che più ricorre nella relazione – passerà a un altro vescovo, certamente è destinata a rimanere intatta la fiducia della «gente» che «ha sempre riconosciuto che i loro vescovi ci sono e sanno farsi eco rispettosa e autorevole in ogni sede, senza interessi personali o di parte». Una presidenza lascia il passo a un’altra, ma la Chiesa degli italiani resta al suo posto.
E dall’uomo che l’ha guidata negli ultimi due lustri si sente invitata a scorgere dentro il «groviglio» dell’«uomo occidentale», che «appare confuso e smarrito sulla propria identità», un’«opportunità» che «piano piano emerge dalla coscienza distratta, si fa voce, si trasforma in attesa, diventa invocazione: è l’alba del risveglio», il «risveglio della coscienza», il «risveglio dell’anima», perché «l’uomo non può vivere a lungo senza verità». E di essa, magari confusamente, conosciamo il Volto e il Nome, belli da togliere il fiato e far mancare le parole.