Sud Est asiatico. Nel gesto di pace di suor Ann il Myanmar che vuole libertà
Chissà se un giorno, sui libri di storia, verranno pubblicate le straordinarie immagini di Ann Nu Thawng, provenienti dal Myanmar blindato e rimbalzate nelle ultime ore in Occidente grazie ai social. Sono foto di domenica, in cui si vede una sconosciuta suora-coraggio per le vie di Myitkyina, capitale dello Stato Kachin, estremo Nord del Paese. La religiosa si prostra, piangendo, davanti a un plotone di poliziotti in assetto d’attacco. Poi, restando in ginocchio, solleva lo sguardo, fissando gli uomini in divisa, minacciosamente schierati a pochi metri da lei; quindi alza le mani in segno di pace, chiedendo di smettere di arrestare i manifestanti. Sul suo account Twitter il più autorevole uomo di Chiesa del Paese, il salesiano Charles Maung Bo, cardinale di Yangon, ha postato le immagini e le ha fatte così conoscere al mondo, affermando che, grazie al gesto di suor Ann, un centinaio di persone sono riuscite a sottrarsi all’arresto. Quelle immagini – scattate nel giorno più buio, sin qui, della repressione militare della protesta in Myanmar – ci rimandano a un’altra scena, entrata nella memoria collettiva: l’indimenticabile immagine del giovane cinese che affronta, disarmato, i carri armati in Piazza Tiananmen nel fatidico giugno 1989. Davide che sfida Golia, a mani nude.
L’energia misteriosa della non violenza che non si piega alla brutalità dei violenti. È la sintesi di quanto sta avvenendo, da un mese in qua, per le vie delle città del Myanmar: il popolo che si ribella alla prepotenza dei militari affidandosi alla disobbedienza civile. È il potere dei senza potere che urla al mondo la sua voglia di cambiare. Dopo le Primavere arabe che hanno infuocato Nordafrica e Medio Oriente, le rivolte popolari in Turchia, le proteste dei giovani (e non solo) che da tempo si protraggono in Hong Kong, ora è l’ex Birmania che interpella la comunità internazionale e chiede solidarietà per la causa dei non violenti. Le immagini di sister Ann Nu Thawng sono l’icona più bella, il segno più tangibile, della sete di pace che anima tutto il popolo del Myanmar. Pochi giorni fa i vescovi dell’ex Birmania lo hanno espresso in un documento comune, dai toni molto forti: «Le immagini di giovani che muoiono sulle strade colpiscono il cuore e feriscono la coscienza di una nazione. Questa nazione è reputata e chiamata come 'il Paese dorato'. Fate che il suo sacro suolo non sia imbevuto del sangue dei fratelli. Le lacrime delle madri non sono mai state una benedizione per nessuna nazione». Non si sottolineerà mai abbastanza come le parole dei vescovi riassumano il sentire di un intero popolo.
Nelle passate settimane abbiamo assistito allo spettacolo – inusuale in Myanmar – di un Paese, composto da ben 135 componenti etniche, che si solleva in maniera unitaria contro gli autori del golpe che ha estromesso dal governo Aung San Suu Kyi, la leader democratica premiata dal voto popolare del novembre 2020. Un Paese dove monaci buddhisti sfilano per le stesse strade nelle quali si sono riversati preti cattolici, suore e seminaristi, insieme a una moltitudine di giovani. Nulla di tutto questo è scontato. I rapporti tra cattolici e buddhisti sono rimasti tesi per decenni. Nel 1961, l’anno prima dell’arrivo al potere dei militari, padre Stefano Vong, missionario cattolico di origine cinese Vong venne ucciso da un bonzo buddhista, invidioso del successo che la predicazione del sacerdote andava suscitando.
E anche oggi a Kentung (la diocesi di Vong) un’imponente statua di Buddha continua a stagliarsi verso il cielo, dando le spalle, in segno di offesa, alla cattedrale cattolica che si erge a poca distanza. Oggi il clima è cambiato. Il desiderio di libertà e democrazia accomuna credenti di religioni diverse. Non possiamo assistere inerti a uno spettacolo del genere, men che meno dopo che l’ambasciatore birmano all’Onu, Kyaw Moe Tun, è stato sollevato dall’incarico dai militari. La sua colpa: aver chiesto l’aiuto della comunità internazionale.